Il giovane fabbro di Riparossa
«Pescosansonesco, Abruzzo, 500 metri sul livello del mare. Di sfondo la Majella, il Morrone e, più in là, immacolato di neve, il Gran Sasso d’Italia. Di sotto, per balze sassose e conche verdi di teneri prati o cupe di boschi fitti, lo sguardo scivola lontano, verso l’Adriatico. Pescosansonesco, qualche centinaio d’anime e un pizzico di case in vetta a uno spuntone di roccia. E la roccia è guasta, è fradicia, è cariata, e di continuo si sfalda, e spesso precipita in frane, e ogni volta trascina con sé nella rovina muri di case e brandelli di orti…».
Così inizia il toccante articolo che Gino Lubich dedicò, sul n. 23-24 di Città Nuova del 1963, a un giovane figlio di Pescosansonesco appena proclamato beato da Paolo VI (1° dicembre di quello stesso anno). Si chiamava Nunzio Sulprizio, ed era nato in questo aspro borgo montano da un’umile famiglia, la domenica in albis del 1817. Orfano nella sua fanciullezza di entrambi i genitori, fu allevato dalla nonna materna per poi finire, ancora giovanissimo, nell’officina di uno zio fabbro a tirare il mantice e a battere l’incudine, maltrattato e denutrito malgrado la gracile costituzione e una grave ferita al piede, ferita che avrebbe degenerato in tubercolosi ossea.
In una delle viuzze è ancora visibile, oltre un portoncino ad arco, l’oscura officina che vide per alcuni anni il martirio del piccolo Nunzio: la sua sfibrante fatica, la sua fame angosciosa, il suo patire sotto le percosse più feroci, la sua solitudine senz’amore; e tuttavia la sua devozione appassionata al lavoro. Se avesse conosciuto le Lettere di san Paolo, avrebbe potuto ripetere con lui: «Quotidie morior» (Muoio ogni giorno). Non le conosceva. Perciò s’accontentava di ripetere: «Soffrire per amore di Dio, e soffrire con allegrezza». Fu qui che germogliò la sua luminosa santità.
Oltre alla bottega che fu di zio Mingo, è superstite la grande fontana che attraverso 11 cannelle riempie la vasca sottostante e alimenta i due grossi lavatoi di pietra che le stanno ai lati. Alle prime luci di ogni alba, Nunzio vi lavava le bende incollate alla sua piaga e vi immergeva il piede malatoprima di riprendere il suo sfibrante lavoro. Finché le donne, temendo di rimanere infette da quell’acqua, lo scacciarono a colpi di sassi. Da allora Nunzio si lavò fuori del paese, in un pozzetto scoperto ai piedi di una rupe rossa (la Riparossa di oggi), e in quella solitudine alimentò giorno per giorno il suo colloquio con Dio e con la Vergine, che ormai faceva le veci della mamma perduta.
Aggravandosi il male, per interessamento di un altro zio fu ricoverato una prima volta a L’Aquila, e in seguito a Napoli, nell’ospedale degli Incurabili. Per curarlo meglio il colonnello borbonico Felice Wochinger, che lo amò come un figlio, lo ospitò nel proprio alloggio presso Castelnuovo, l’antica reggia angioina divenuta caserma, fino alla morte avvenuta il 5 maggio 1836: aveva appena 19 anni e aveva sopportato gli atroci dolori della cancrena con animo sereno e gioioso, consolando i compagni di sofferenza e cercando di alleviare, lui stesso povero, la miseria altrui.
Ancora Gino Lubich: «Oggi, a Pescosansonesco, della vecchia chiesa dove ogni mattina il piccolo Nunzio Sulprizio si rifugiava a chiedere un supplemento di forza per sopravvivere un altro giorno non restano che pochi ruderi di campanile e qualche smozzicone di muro. La roccia, fradicia e guasta, sprofondando, l’ha ingoiata. Ma alla “rupe rossa” ora sorge un tempio e le folle dei malati vi accorrono a bagnare le loro infermità nell’acqua in cui Nunzio lavò la sua piaga».
È il moderno santuarioeretto negli anni Novanta del secolo scorso, che ha inglobato il pozzetto di Nunzio (una fonte che pare abbia già provocato diverse guarigioni miracolose) ed ora custodisce parte delle spoglie del giovane beato: il resto si trova a Napoli, nella chiesa di San Domenico Soriano. Santuario fin troppo ingombrante nel panorama offerto dall’antico borgo, ma certamente più stabile di altre costruzioni sulle rocce malsicure di Pescosansonesco.