Il giorno del silenzio

Un monito ad alcuni colleghi giornalisti che, in nome dell’informazione e della completezza dei fatti, hanno varcato i limiti della privacy e del dolore di una comunità, acuendone le ferite
Pieve_di_Soligo

Si celebrano oggi a Pieve di Soligo i funerali delle quattro vittime della tragedia di Refrontolo, in un duomo che certo non è mai stato così pieno né potrà accogliere la folla che certamente presenzierà alle esequie. Una folla che comprenderà anche tanti giornalisti e operatori dell'informazione, che in questi giorni l’hanno fatta da padroni in questo sconosciuto angolo di Quartier del Piave.

Ed è proprio il loro comportamento che, da giornalista, in questi giorni mi ha lasciata parecchio perplessa. Lunedì scorso, poco più di 24 ore dopo i fatti, un giornale locale è uscito con ben 4 pagine − una per ciascuna delle vittime − dedicate ai commenti e ricordi dei familiari, evidentemente interpellati poche ore dopo aver avuto notizia della morte dei loro cari: davvero, per «fare informazione», era necessario andare a scomodare persone che in quel momento avrebbero probabilmente voluto solo essere rispettate nel loro dolore?

Ieri sera, ossia quattro giorni dopo, una rete tv nazionale ha trasmesso le concitate telefonate arrivate al 118 il sabato sera per chiamare i soccorsi: in un momento in cui ormai i fatti già sono noti in lungo e in largo, quale strana e oserei dire morbosa esigenza informativa soddisfa il fatto di ascoltare l'ansia, la disperazione e la paura che si coglieva in quelle voci? Come si sarà sentita la persona che ha effettuato quella chiamata, riascoltando la sua voce fatta risuonare nelle case di tutta Italia?

Questa mattina, in una delle tantissime interviste trasmesse, una giornalista non ha trovato di meglio che chiedere all’organizzatore della festa se si sentisse in colpa: direi che definirla una domanda infelice, specie nel giorno in cui quell'uomo andrà in chiesa a piangere sulle bare dei suoi amici, è a dir poco un eufemismo.

Così come nei giorni scorsi sono state interpellate più volte diverse persone presenti alla festa, spesso insistendo con domande particolarmente macabre sul genere «raccontaci di quando hai visto i cadaveri»: ancora un po', e mi sarei aspettata che chiedessero se avessero scattato delle foto col telefonino e di poterle vedere.

Per cui, da giornalista, dico ai miei colleghi: tacete. Almeno oggi. Almeno nel giorno del funerale, lasciate che a parlare siano le preghiere di chi accompagnerà quelle quattro bare al cimitero e dei tanti che vorranno unirsi, e non i vostri servizi sensazionalistici spesso fuori luogo.

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