Il giornalista

Dalle pagine del quotidiano "Il Popolo" Giordani porta avanti le sue appassionate e coraggiose battaglie politiche e culturali. Il racconto nelle pagine de Igino Giordani, storia dell’uomo che divenne Foco di Tommaso Sorgi (Città Nuova, 2014)
Igino Giordani

Sturzo riusciva a realizzare il progetto di dotare il partito di un quotidiano proprio, che, pur senza esserne l’organo ufficiale, gli fosse molto più vicino che non l’abbondante catena di quotidiani “aderenti”, ma sempre pronti a prender le distanze – come fecero – appena ai loro controllori si fosse attaccato qualche virus filo-governativo. Il prete siciliano affidò la realizzazione del progetto a Giuseppe Donati, politico e giornalista di provenienza murriana, addirittura polemico con il Partito Popolare Italiano: si trattava di un cristiano battagliero dalla soda formazione sia politica sia teologica, e come tale capace di sostenere una linea cristiana di autonomia laicale, fa notare Bedeschi, quella stessa che l’ex militante fra i giovani democristiani murriani ritrovava nella intima natura del Partito Popolare Italiano.

Donati nel partire con «Il Popolo» si scelse personalmente la sua équipe di collaboratori, includendo nella redazione politica Giordani insieme con Anile, Gilardoni, Ruffo della Scaletta, e pochi altri, tutti nomi di alto livello, indicati in uno dei primi numeri del quotidiano in cui veniva presentato l’intero gruppo redazionale. In particolare egli impegnava lo scrittore tiburtino per la terza pagina, valutata acutamente dallo stesso Bedeschi come «vero controcanto religioso alla tematica politica».

Così Giordani partecipò alla coraggiosa battaglia di Donati contro la dittatura con scritti, che più di una volta dal direttore furono considerati degni di apparire come articoli di fondo. Sulle colonne de «Il Popolo» s’impegnò ad alto livello nel confutare il filosofo Gentile, che tentava di addomesticare anche teoreticamente i cattolici con una interpretazione deformata del cristianesimo; sviluppò una sua personale polemica con Marinetti e il futurismo; concorse con argomenti patristici a dimostrare l’ortodossia religiosa dei popolari, respingendo certi dubbi sulla loro fedeltà alla Chiesa, insinuati da quelli che Sturzo chiamava «clerico-fascisti»; svolse un particolarissimo ruolo nel dibattito sulla “questione morale” – come fu chiamata – suscitata dal delitto Matteotti (10 giugno 1924) non risparmiando attacchi arditi, direi temerari, a Mussolini, a Federzoni, ministro dell’interno, e al pericoloso Farinacci, per alcuni anni segretario del partito al potere.

La sua battaglia con il capo del governo dopo l’assassinio di Matteotti assunse toni che oggi sembrano incredibili. L’apice forse fu il fondo de «Il Popolo» del 10 dicembre di quell’anno, dal titolo Nemesi: qui egli ricordava a Mussolini che in un suo articolo del 1916 su «Il Popolo d’Italia» aveva preferito Barabba e insultato Cristo – che chiamava «il…rabbi dalle chiome rosse» – minacciando di schiodarlo da quello che l’allora rivoluzionario definiva «Golgota da palcoscenico».

Nella crisi del regime per lo sdegno montante nei mesi del dopo-Matteotti ed anche per il malessere interno allo stesso partito dominante, sembrava avvicinarsi la caduta del duce. Giordani vi scorgeva le avvisaglie di una nemesi storica: giudicava «quest’uomo tracotante» (Mussolini) ridimensionato a «politicastro»; e prevedeva imminente il crollo di lui-Barabba e dei «suoi scribi e farisei» con tutto il «palcoscenico insanguinato del fascismo». E ciò stava avvenendo, spiegava, «anche mercè nostra», per gli smascheramenti operati contro gli uccisori di don Minzoni e i violentatori della libertà («i nostri fendenti furono e saranno poderosi»).

L’attacco – proprio sciabolate all’ultimo sangue – attirava anche l’attenzione dello storico parigino Vaussard, che su «Les Temps» lo dichiarava «di una veemenza inaudita». Chi lo rilegge oggi, costata che veramente lo era. E gli viene da chiedersi come mai sull’autore non si sia abbattuta la reazione del duce, così personalmente e duramente toccato, o dei suoi non certo teneri collaboratori, che per molto meno usavano manganello e olio di ricino, il confino o anche l’eliminazione fisica.

E ciò poteva accadere soprattutto dopo che Mussolini riprese in pugno la situazione, traendo il regime fuori dalla crisi con la sterzata definitivamente totalitaria proclamata esplicitamente nel discorso del 3 gennaio 1925.

Non accadde. E Giordani continuò la sua lotta accesa e coraggiosa finché «Il Popolo» riuscì a vivere, pur tra mille azioni censorie. Dopo le forzate dimissioni di Donati (13 giugno), subito partito per l’esilio, e dopo la sua sostituzione con un direttore, Giuseppe Margotti, ben meno vigoroso di lui – anzi «flaccido», lo vedeva Giordani – i sequestri continuarono intensi fino alla chiusura completa, avvenuta l’11 novembre 1925.

da Igino Giordani, storia dell'uomo che divenne Foco di Tommaso Sorgi (Città Nuova, 2014)

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