Il genio “matto” di Ligabue

Cinquant’anni fa moriva uno dei grandi pittori del Novecento. A Gualtieri, nella Bassa Padana, una casa museo racconta il suo mondo e la sua esistenza tormentata
ligabue

Alternava momenti in cui appariva socievole, quasi tenero, e altri in cui era inavvicinabile per i suoi urli ed escandescenze (non sopportava, ad esempio, che qualcuno tossisse in sua presenza). Altre volte si procurava ferite di proposito. Più che con gli uomini si trovava a suo agio con gli animali sia domestici che selvatici. Vagabondava qua e là, dormendo nei fienili (quasi in piedi, come i cavalli) o dove trovava ospitalità. L’amministrazione di Gualtieri, il comune della Bassa Padana nel quale trascorse gran parte della sua esistenza, ondeggiava tra il prenderselo a carico o disfarsene. Non si lavava mai, ma lavava maniacalmente i conigli e il cane a cui accudiva. Non mancarono periodi in cui venne ricoverato in manicomio. Era insomma “il matto del paese”. Tanto equilibrato non era di certo, ma una cosa è sicura: era un grande artista, un autodidatta non ascrivibile a nessuna scuola, anche se molti lo hanno classificato come pittore naïf.

 

Questo è stato Antonio Ligabue, uno che con la sua arte – cui è stato fedele fino alla fine, come ad una missione – ha curato le ferite della prima giovinezza. Di padre ignoto e madre veneta emigrata in Svizzera, poi sposata ad un tal Bonfiglio Laccabue, nasce il 12 dicembre 1899 a Zurigo; cresciuto in miseria con un patrigno che mai accetterà, va a vivere in adozione presso una coppia svizzero-tedesca da lui considerata la sua vera famiglia. La sua giovinezza: un peregrinare dalla scuola a un istituto psichiatrico. Ha origine in Svizzera il suo amore per la natura e gli animali. Ma nel 1919 la Confederazione elvetica espelle gli immigrati e i Laccabue (intanto dalla nuova unione della madre sono nati altri tre figli) si trasferiscono a Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia. E qui avviene la tragedia: la madre e i fratellini muoiono per avvelenamento da cibo. Assolto il patrigno, inizialmente sospettato di omicidio, e sistemato in un ricovero, inizia per Antonio una esistenza raminga.

 

Della sua rivoluzionaria produzione – dipinti e sculture spesso ceduti alla gente del posto in cambio di un piatto di minestra o generi in natura – molto è andato disperso o distrutto anche in seguito alla catastrofica inondazione del Po del 1951; ma ciò che rimane nei musei di tutto il mondo parla di vita e di bellezza conquistate attraverso il crogiuolo del dolore. Molti gli autentici capolavori che, essendo lui ancora in vita, hanno attirato l’attenzione degli intenditori.

 

Negli ultimi anni, a sorpresa, questo irriducibile solitario misogino sentì il bisogno di formarsi una famiglia. Purtroppo non riuscì a realizzare tale sogno: quale donna avrebbe acconsentito a sposare quel matt? Poi l’ictus che, impedendogli di dedicarsi all’arte, fu causa della sua notte oscura. Gli ultimi giorni, in ospedale, sentì il bisogno di accostarsi ai sacramenti: proprio lui che nei suoi accessi d’ira bestemmiava e non era certo stato frequentatore di sagrestie.

 

Sempre Ligabue aveva preferito agli uomini gli animali, dei quali ci ha lasciato rappresentazioni stupefacenti per bellezza e vitalità. Eppure alla fine della vita sembrò distaccarsi anche da loro. Fu quando al cappellano che portava la comunione agli altri ammalati, ma non a lui, si rivolse in dialetto: «E me, e me, sunia na bestia me? A la voi far anca me! (E io, e io, sono una bestia io? La voglio fare anch’io!)». Certo, la dedizione della suora che lo assisteva aveva finito per ammorbidire quell’anima troppo sensibile ed ulcerata, che aveva sempre ricercato nel suo itinerario una superiore armonia.

 

A cinquant’anni dalla morte avvenuta nel 1965, un libro – Antonio Ligabue, l’uomo: la vita disperata e il genio artistico “dal matt” (Ed. Imprimatur) – narra la vicenda di questo che ormai è riconosciuto tra i grandi artisti del Novecento. Autori di questa ricostruzione appassionante come un romanzo e ricca di testimonianze sono Ezio Aldoni e Giuseppe Caleffi, rispettivamente il regista del docufilm su Ligabue e il fondatore del museo a lui dedicato a Gualtieri: è ricavato in una delle case coloniche nelle quali egli trovò ospitalità. Un museo piccolo, ma curato con amore, che aiuta a capire il mondo di Ligabue e, oltre a sue opere, contiene gli attrezzi con cui lavorava e diversi oggetti della vita quotidiana, nonché una fiammante moto Guzzi, una della dodici da lui possedute (un’altra delle sue originalità). Non manca un video che ritrae l’artista in diverse scene.

 

Andando via, una considerazione viene spontanea: solo in un piccolo centro contadino come questo, solo qui dove un “matto del paese” riesce a farsi accettare (e amare) malgrado tutte le sue intemperanze e le difficoltà convivenza, egli ha potuto crearsi un suo modus vivendi, esprimersi e diventare il Ligabue che ora tutti ammirano. In una grande città probabilmente il suo genio non avrebbe trovato posto.

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