Il furore e la quiete

Recitazione impersonale, scena essenziale, immobilità assoluta: il regista Massimiliano Civica al Teatro India di Roma
Attraverso il Furore

Operazione ardua. Coraggiosa. Encomiabile. Che mette, però, a dura prova lo spettatore. Al quale viene richiesto, indirettamente, un posizionamento interiore all’ascolto e alla visione, spegnendo col frastuono e le voci esterne.  In Attraverso il furore, il regista Massimiliano Civica dispone in scena tre sermoni di un predicatore medievale, il domenicano Meister Eckhart, e tre brevi dialoghi odierni fra una coppia, del giovane drammaturgo Armando Pirozzi. Due linguaggi giustapposti – la verbosità della predicazione e un distillato di frasi – senza cercarne l’amalgama, ma con l’intenzione di farli stridere fino a illuminarsi a vicenda.
 
La parola teatrale, per Civica, «non è mai informativa, argomentativa, ma è sempre “azione in voce”». Caratteristica del regista è lavorare su una recitazione impersonale, privandola di intonazioni e di sfumature psicologiche, a favore di un linguaggio scarnificato, prosciugato di sedimentazioni emozionali (e il suo scespiriano Mercante di Venezia è uno dei migliori risultati). Pure la scena è concepita essenziale, svuotata da qualsiasi orpello per non indurre lo spettatore in distrazione. Anche in Attraverso il furore, ritroviamo la sobrietà del suo stile, tradotto scenicamente nell’immobilità assoluta: un lungo tavolo con, seduto di profilo, Marcello Sambati davanti a un leggio, a “dire” con un’intonazione monocorde (si girerà improvvisamente verso la platea per sottolineare l’inizio di una frase di san Paolo che dice «Noi tutti»); e, disposti frontalmente senza mai guardarsi, Valentina Curatoli e Diego Sepe, anch’essi seduti e sempre fissi verso il pubblico (avranno solo qualche lieve movimento della testa e delle mani rivolte verso l’altro).
 
In questo cortocircuito fisico e di epoche lontane, protagonista è, appunto, la parola: quella del passato, solenne, forte, carica della certezza della fede; e quella incerta, titubante, fragile, del presente, declinata dalla coppia con una dizione atona. È l’incontro-scontro di universi distanti, dove i temi, tra ragione e conoscenza, dei sermoni del mistico tedesco, incendiati dalla contemplativa sete di un’unione dell’anima con Dio, risuonano autorevoli, portatori di una tensione “spirituale”; la stessa che, seppure lontana, dovrebbe rintracciarsi e scuotere nelle tre incompiute e sghembe storie “d’amore” narrate, che esprimono fasi e situazioni diverse della vita: dall’incanto, alla maturità del cuore.
 
Curatoli e Sepe sono bravi nel loro trattenuto pathos, nella rigorosa prova espressiva, interiorizzata e quasi punitiva, che li fa essere identità indefinite ma vive. In questa materia raggelata, però, fa fatica a rintracciare, anche drammaturgicamente, il nesso fra i contenuti. Forse, nella generale perdita del sacro, quella di Civica è la ricerca di una “mistica” da applicare negli interstizi dell’umano quotidiano? Il bisogno, vero, di incontrare lo sguardo dell’altro per ritrovare senso e salvezza? Credo sia anche tutto questo il significato profondo. Ma il furore “quieto” che scorre attraverso la declamata severità delle parole, dentro questa fissità impaginata in un rigore formale ascetico, non arriva ad attraversarci e scaldarci. Senza traghettarci da una riva all’altra del “furore”.
 
Al teatro India di Roma
 

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