Il fuoco di Guttuso

Inaugurata a Roma, al Vittoriano, la retrospettiva sull’artista siciliano. A cent’anni dalla nascita, altrettante opere in mostra
il merlo di guttuso

Voleva esser un testimone del suo tempo. Non di altri. E l’ha vissuto con interezza, senza nascondere la sua prospettiva, chiaramente “sociale”. Eppure, nella lunga attività di questo siciliano, che amava Milano e ancor più Roma, l’ideologia solo a volte ha frenato l’ispirazione o l’ha compromessa o appesantita.
Perché  Renato Guttuso era e restava un mediterraneo. Il Mediterraneo non è un’isola felice. Si crogiola in drammi, in travagli fisici e psicologici, si infiamma e si immalinconisce e si dispera. E poi vuol correre e fuggire, spaziare per il mondo. Poca tenerezza, all’apparenza. Ma il bisogno di amore invece è formidabile, esplosivo. Si potrebbe dire che tutta l’opera di Guttuso, anche la più retorica, è un atto d’amore verso qualcuno o qualcosa. Violento, forte, possessivo. Come la sua tavolozza.

Fa impressione quest’arte. Guttuso passa, con le sue suggestioni, da De Chirico ai surrealisti, ai cubisti, ama Picasso, ma resta sempre il medesimo.
Un uomo di una vitalità sconfinata. La sua natura così aggressiva gli fa dipingere nel 1947 tele come "Il merlo" (nella foto), dove l’uccello nero è una macchia scura dentro un groviglio di forme naturali vivificate dal rosso, la tinta privilegiata. Rosso che è sangue,  fuoco, anche virilità, amore e guerra. E vittoria. Il canto violento della tela resta impresso e affascina. La sua luce estiva appare quasi crudele. È sullo stesso piano espressivo la poesia “sociale” che ritrae “La pesca del pesce spada”, “Il massacro degli agnelli”- dove la forza della lama che penetra nella gola dell’animale è dura come la morte -, o “La fuga dall’Etna”, con una umanità impazzita e fuggiasca, crogiolo di forme nude e disperate. Non c’è riposo in quest’arte. Il "Nudo sdraiato" (che è poi la moglie) nell’estate gialla e rossa, tozzo e opulento, ha una smorfia contenuta nella bocca nascosta dalla mano: è il riso amaro di tanto Mediterraneo, mai del tutto felice.

Guttuso passa senza tentennamenti dall’intimo di una donna in una camera, da una natura morta sul tavolo con arance che sono altrettanti soli (1941), a ritratti folgoranti per intuizione incisiva. Personaggi come Anna Magnani (abbruttita dal dolore), Pavese, Moravia – di una cupezza sconcertante – e in particolare Mario Schifano (1966). Quest’ultimo, diafano e tristissimo su fondo bianco-blu, dice di un tempo di autodistruzione, quale il nostro, più di tante parole o saggi o commenti televisivi. Icona di un malessere sociale, l’uomo seduto con le mani incrociate è un Budda stanco che ha ormai inghiottito il sorriso.
Meno felice appare la vena di Renato quando commemora epicamente i grandi fatti sociali, "I funerali di Togliatti", "Il trionfo della guerra", "La discussione": si avverte una volontà di raccontare e di far passare i messaggi tipica della grande comunicazione, nobile ma sottilmente retorica.

Altra cosa ad esempio da "Zolfara" del 1953, un dolorosissimo purgatorio dantesco con l’immagine del ragazzino che tiene il sacco aperto o l’uomo dal fazzoletto rosso in testa che avanza dall’oscurità verso la luce. Qui il tema “sociale”, diventa come nelle opere di Verga, epos della gente povera, travagliata da secoli di fatica, ma che ha conservato, in quei chiaroscuri violenti del colore e della luce, una formidabile dignità.

Sono corpi vivi anche se dolenti. Guttuso è pittore del corpo, come pochi altri. Talora lo vede come pura carne come ne "La spiaggia" del 1956. A volte è insieme di solitudini come il celebre "Caffè Greco" del 1972. Talora esplode come vita di tutto – animali, persone, cose -, come ne "La Vucciria" del ’74, uno dei suoi capolavori. Qui è la Sicilia, il Mediterraneo, ossia una civiltà millenaria nella donna di schiena con la borsa della spesa, nell’uomo magro che avanza, in quel mercato dove un colore intriso di luce violenta fino al parossismo rende  palpitanti,  lancinanti le verdure e le carni. È la vita intesa come rapporto, cibo, dinamismo.

Poi, il dolore può esser gridato fino al soffocamento e la "Crocifissione" del 1940 col Cristo dal volto “perduto” lo esprime nei rossi sanguinolenti. Gli stessi, ma addolciti, dell’abito del Cristo senza volto  di fronte alla tovaglia candida su cui c’è un pezzo di pane in Emmaus del 1981. Guttuso affronta il mistero nell’ultima fase della vita. Che per lui è sempre concreto, pane, croce. L’ha intuito, poco prima della morte il 18 gennaio 1987.
 
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