Il freddo delle 7 di mattina – Natale nello Xinjiang
L’aeroporto di Ürümqi è anonimo, come tutti gli aeroporti del mondo, ormai. Un taxi – qui in Cina metà delle vetture pubbliche sono guidate da donne – ci conduce fino a casa di T., per la cena di Natale. Una casa popolare, esternamente orribile, passabile nelle scali comuni, gradevole all’interno: quattro stanze, che per la Cina non è poco. Mangiamo spartanamente su un tavolo da cucina senza tovaglia: spezzatino freddo, minestra di patate dolci, patate e cipolle cotte al vapore (buone), peperoncini piccantissimi, macedonia di verdure. E tè, acqua calda e un distillato di grano gradevole. Ci conosciamo un po’, ci sentiamo vicini, l’amore reciproco si taglia a fette, forse c’è anche unità. Il sonno arriva prima della mezzanotte, a coronare un Natale vissuto allo sprofondo, in uno dei luoghi più remoti della terra.
Sveglia all’alba, corsa in taxi sotto la neve alla chiesa cattolica principale di Ürümqi dedicata a Maria Immacolata – per prudenza e modestia, non si vuole che sia chiamata cattedrale –, assistere alla messa della Natività delle sette! Fuori ci sono 18 gradi sotto zero, dentro più o meno si raggiungono i zero gradi. La chiesa è nella penombra, e la ventina di presenti sta recitando una preghiera che assomiglia tanto al rosario. L’amplificazione racchia da morire, ma la gente sembra non farci caso.
Tutti sono inginocchiati, e la massima parte di loro tiene la testa nelle proprie mani: la fede è forte, si taglia a fette. Un presepio assai gradevole alla vista, fornito di abbondanti luminarie, occupa lo spazio alla sinistra dell’altare, che a sua volta è addobbato con tre o quattro alberi di Natale che brillano ad intermittenza. Padre Wong, sulla trentina, celebra la messa con giustezza e solerzia: la sua omelia parla della necessità che ogni cristiano rivesta le sue azioni di carità. Altrimenti non è seguace di Cristo. Al momento della comunione, in chiesa s’è ormai radunato un centinaio di fedeli: tutti si comunicano, nessuno escluso, una percentuale da record.
Sono 10 mila i cristiani nello Xinjiang, un terzo dei quali abita il capoluogo Ürümqi. Venti sono i preti, altrettanti i seminaristi e una trentina le suore. Un centinaio sono i battesimi all’anno, sostanzialmente necessari a compensare i numeri delle morti dei cattolici. Qui non c’è distinzione tra Chiesa patriottica e Chiesa clandestina, non sembra che ve ne sia motivo, anche perché storicamente i cattolici sono sempre stati fedeli a Roma. Vengo poi invitato alla frugale colazione dal vescovo, mons. Xie Ting Zhe, sulla settantina abbondante, dal perenne sorriso “che ha un perché” decorato da una fila di denti dorati. Assieme a noi ci sono quattro preti e una dozzina di seminaristi.
L’ambiente – una lunga fila di locali che circonda su tre lati il compound della cattedrale – è estremamente povero, anche se dignitoso. Suppellettili e mobili sono essenziali, non c’è nulla di non necessario. Ho l’impressione che nulla si getti in questo posto, che tutto venga riciclato mille e mille volte. Eppure in questi locali sono ospitati un convento di suore, un ospizio per una settantina di anziani, il seminario e gli uffici della diocesi, grande come tutto lo Xinjiang.
Mons. Xie Ting Zhe è un uomo gioviale, sereno all’apparenza, dedito alla sua missione pastorale con tutto sé stesso: altro non ha nella vita. Le sue parole potrebbero sembrare ingenue, non considerare la difficoltà dell’essere cristiani, e cattolici in particolare, in Cina. Ma non è così, ovviamente. Egli conosce il bene del suo “popolo”, e si farebbe ammazzare piuttosto che mettere a repentaglio la sua esistenza.
Nel suo studio modestissimo, con attigua la sua stanza da letto, c’è reale povertà. La lampada da scrivania, vecchia e traballante, ha più di vent’anni. L’unico “spreco” sono le statue della Madonna: ne conto sei! Un plateau di arance nasconde probabilmente la sua sola concessione al benessere. Su una parete vedo affisso un calendario che riporta le immagini delle basiliche e delle Chiese romane. «Abito lì», gli faccio. Il vescovo quasi si commuove, mi fa una carezza e mi dice: «Beato te».