Il Flauto magico
Leggerezza. Non si trova altro termine per definire l’opera di Mozart dopo ogni ascolto. È un incontro con qualcosa di così trasparente che c’è da rimanere ogni volta incantati. Non è solo il Mozart che gioca con Papageno e Papagena, marionette del teatro di periferia, quello che riflette sugli ideali massonici di Sarastro nel conflitto bene-male, e quello che canta l’amore purificato di Tamino e Pamina.
Perché questa non è tanto un’opera di personaggi, ma di situazioni o, se si vuole, di stati d’animo. L’ultimo Mozart in quel settembre 1791, a due mesi dalla morte, compie il miracolo di una favola-meditazione-gioco che si eleva al di sopra della commedia umana della trilogia dapontiana per qualcosa di universale ancora più vasto, coprendolo, anzi irrorandolo con il timbro della magia e di una fanciullezza interiore che non cessa di stupire.
Fanciullezza, ma anche maturità profonda. In questo caso i due termini, di solito antitetici, coincidono. Far rimare l’incanto dell’esser bambini con quello di una vita che tutto ha vissuto e punta ad un altrove di perfetta armonia non è facile. Ci ha provato Verdi nel Falstaff con un disincanto amaro.
In Mozart invece c’è la gioia. Anche nei passaggi dolorosi della coppia Tamino-Pamina essa è lì, come un sottofondo.
La sapienza orchestrale e tecnica mozartiana è da brivido. Tutte le forme musicali del suo tempo, da Gluck a Bach agli italiani ai francesi son riassorbite e unificate dalla sua personalità, che tutto copre e fa scattare alla fine la visione di una sublime, altissima armonia.
L’esecuzione in forma di concerto del 21 novembre all’Accademia romana di Santa Cecilia è toccata all’Akademie fur Alte Musik Berlin, formazione già prestigiosa, al Rias Kammerchor diretti da uno specialista di musica antica come René Jacobs.
Strumenti antichi, uso di recitativi con il cembalo che scherza e varia a ricreare l’aria di teatro periferico godereccio e favolistico per cui Mozart compose l’opera. I due atti in versione integrale hanno delineato la musica mozartiana con brio ed eleganza. E se certe sonorità strumentali cui siamo abituati sono diventate più lievi – penso al flauto –, pure l’insieme è stato di una forza non pesante, di una dolcezza non stucchevole (penso all’entrata dei violini nell’ultimo duetto dei Papageni) e di una solennità non barocca negli ottoni.
Insomma, il gigantismo attuale delle orchestre pesa ogni volta che si esegue il Flauto. Jacobs ha concertato in modo accuratissimo e la partitura è uscita al color niveo, non senza qualche lieve smagliatura.
Certo, il cast ha fatto la sua parte, in particolare il tenore Topi Lehtipuu elegante e svelto, la Regina di Burcu Uyar energica e la Pamina di Miah Persson molto dolce. Applausi meritati al Papageno di Daniel Schmutzhard e al coro che nella sua perfezione reca l’eco di Bach ed Haendel.