Il Flauto magico

La favola mozartiana diretta dal giovane Erik Nielsen in scena all’Opera di Roma, con un travolgente Markus Werba nel ruolo di Papageno
Il flauto magico

È una favola, come tutti sanno, l’ultima opera di Mozart. E David McVicar, regista inglese di ottima e meritata fama, lo sa. Perciò inscena sipari rossosangue o cosmici, mimi pupazzeschi, sbertucciate del coro e qualche approccio osé nella storia di Papageno e Tamino, alla ricerca il primo della sua Papagena e il secondo dell’amata Pamina.
 
Fa bene, il regista, a non insistere sul solito rituale massonico che appesantisce certe messinscene e dà un tocco retorico all’opera, con le sue invocazioni all’armonia, alla fratellanza. Cose vere, indubbiamente, a cui Mozart mostra (fino a che punto?) di credere, evocando rituali haendeliani o luterani di una solennità grave. La simpatia, più che al sacerdote, un po’ predicatore, Sarastro – vestito di costumi fiammeggianti e intento a perlustrazioni astronomiche – e alla sua corte di adepti imparruccati (con fogge che appaiono caricaturali o satiriche, chissà…), va certo al principe Tamino, che Juan Francisco Gatell impersona con fresca purezza, all’innamorata Pamina e a Papageno, uno straordinario mattacchione Markus Werba, che piroetta senza fatica da una parte all’altra del palco. Fra scenari semoventi e un poco claustrofobici nella loro altezza oscura: la lotta fra il chiaro e le tenebre, secondo il messaggio massonico sotteso ai due atti del Singspiel.
 
Ma il Flauto è favola. Anche la Regina della notte, povera donna schiacciata dalla saggezza di Sarastro e vittima di destini più grandi di lei, fa alla fine tenerezza nelle sue strida sovracute di uccello impazzito nella notte: insomma, la “cattiva” non fa paura a nessuno. Come nelle favole che si rispettano, il finale è moralistico, luminoso e i due amanti hanno trovato la gioia.
 
Tutto questo è messo in musica da un Amadeus che si avverte nervoso, instabile, perfetto amministratore del proprio talento e della propria sapienza musicale. Con una gran voglia di divertirsi (Papageno è forse il lato infantile, istintivo di Mozart) e una malinconia che in certe frasi di Tamino e Pamina sa di pianto. Ovviamente, inespresso, dolcissimo pianto di Amadeus che forse immagina di dover presto morire (come accadrà qualche mese dopo, nel 1791), ma almeno vuol provare un briciolo di favola felice.
 
Innocua allora la musica mozartiana, solenne e popolare, della favola bella? Tutt’altro. Perciò il Flauto è opera difficile da eseguire. Ieri sera, alla prima dell’Opera di Roma c’era un buon cast. Gatell è Tamino, svelto, chiaro, acuti facili e sonori; Pamina è Hanna-Elisabeth Müller, fresca voce, delicata; travolgente Markus Werba come Papageno. Problemi di intonazione e di volume invece per il grandioso Sarastro di Peter Lobert e, purtroppo, anche per la Regina di Hulkar Sabirova, impacciata nei sovracuti e nelle agilità (speriamo meglio in replica).
 
Dirigeva Erik Nielsen, giovane americano dal gesto per fortuna chiaro e non esagitato – come invece alcuni suoi colleghi giovani –, con proficuo impegno, e l’orchestra ha risposto quasi sempre con buoni risultati, anche se forse troppo numerosa per la musica mozartiana (ma molto bravi i corni). Spettacolo moderno, che guarda all’antico senza stravolgerlo, puntato soprattutto sulla favola. Meno male. Applaudito da un pubblico numeroso e purtroppo non sempre silenzioso (anche certi critici commentano tutto il tempo…). Repliche fino al primo aprile. Da non perdere per chi ama Mozart.
 

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