Il fiore della riconciliazione

Vent’anni fa in Rwanda 800 mila morti per una guerra civile. La forza del perdono nella storia di Pina Uwimana e l’iniziativa di tumulazione comune per la settimana santa
Pina Uwimana

È un 7 aprile che non si dimentica. L’abbattimento dell'aereo del presidente del Rwanda, Juvénal Habyarimana, ad opera di estremisti dell’etnia hutu fa precipitare il Paese in una guerra civile preparata da tempo e con cura. Barbarie che si estendono con una recrudescenza impensabile, fiumi di sangue che scorrono fino al 19 luglio del 1994 e lasciano, secondo l’Onu, 800 mila morti sul terreno.

Quest’anno ricorre il ventennale di una tragedia dimenticata che è passata alla storia come una strage perpetuata a colpi di machete, mentre in realtà, è stata pianificata con campagne di stampa che fomentavano l’odio degli hutu contro i tutzi alimentate dai Paesi occidentali. È il principio di sempre: divide et impera, per poter controllare il Rwanda, un meraviglioso Paese delle mille colline esteso quanto la Lombardia. Non si trattò, dunque, solo di uno scontro tribale, ma è stato l’ennesimo frutto di miopi politiche coloniali che hanno enfatizzato ed esasperato una divisione che all’inizio non era etnica.

Pina Uviwama, vive in Italia, ma era nelle Filippine al momento dello scoppio dei massacri. Anche la sua famiglia fronteggia l’orrore. «Trentanove ‒ ricorda ‒ dei miei sono stati ammazzati. Ero in preda allo sconforto. Piano piano mi sono ritrovata vuota di quei sentimenti che fino allora mi avevano riempito l’anima, mi sembrava che niente avesse più senso».

Lavora alla croce rossa e si trasferisce in Kenya per seguire da vicino i feriti e i profughi in fuga dal Rwanda «ma non riuscivo ‒ spiega ‒ a guardare in faccia le persone dell’altra etnia che avevano partecipato ai massacri». È troppo duro e doloroso. Un giorno incontra in un corridoio delle persone dell'altra etnia e non può evitare il loro sguardo. L’odio monta. «Ho pensato alla vendetta, mi sentivo confusa, ero ad un bivio: o mi chiudevo nel mio dolore con la rabbia dentro, o chiedevo aiuto a Dio».

Qualche giorno dopo in ufficio riconosce persone dell’etnia nemica che abitavano proprio nella sua città. «Mi riconoscono e si sentono a disagio, cominciano a tornare indietro. Anche loro mi considerano una nemica». La forza del perdono è l’unica arma della riconciliazione sociale. Pina lo sa. Lo ha imparato dal Vangelo. «Con forza ‒ racconta ‒ vado loro incontro parlando nella nostra lingua, senza dire niente della mia famiglia, ma interessandomi alle loro necessità».

Un anno dopo riesce a rientrare in Rwanda per andare a trovare l’unica sorella sopravvissuta alla strage e viene a sapere che l’uomo che aveva ucciso i suoi fratelli era stato catturato ed era in prigione. È una ferita ancora aperta soprattutto perché era una persona molto vicina alla sua famiglia. «Pur nel dolore, e contro le persone che invocavano la pena di morte, è stato chiaro che non potevo fare un passo indietro nella strada aperta verso il perdono».

Coinvolge anche la sorella, che aveva assistito al massacro. «Siamo così andate insieme in prigione a trovare questa persona, portandogli sigarette, sapone, quello che potevamo, e soprattutto a dirgli che lo avevamo perdonato. E lo abbiamo fatto». Non solo, la sorella di Pina adotta 11 bambini di tutte le etnie. Qualcosa di inconcepibile per il Rwanda.

Ora, a distanza di vent’anni, Pina ritiene che non tutto sia finito «in città va meglio, ma nelle campagne sussistono delle divisioni». Nella settimana di Pasqua tutte le vittime della guerra in Rwanda saranno tumulate nello stesso cimitero. Oggi sono tutti considerati eroi della patria ma non tutti condividono, vogliono sia detto chiaro chi era hutu, coloro che hanno iniziato, chi era tutzi, coloro che hanno subito. «Per me è un passo avanti ‒ commenta Pina ‒ si torna a come eravamo prima della guerra». L’iniziativa è chiamata “Il fiore della riconciliazione” perché porti ancora frutti di pace nella società rwandese.

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