Il femminismo
Giulia Galeotti: […] Uno scossone anche al rapporto tra i sessi: il femminismo nacque proprio durante la rivolta delle università perché gli studenti facevano fare alle coetanee le fotocopie…Anche tu prendesti coraggio?
Lucetta Scaraffia: Frequentavo occupazioni e assemblee senza capire quasi niente! Mi colpì però subito l’improvviso mutamento nel vestire: prima noi ragazze mettevamo i pantaloni solo al mare o in montagna, mai in città e tanto meno a scuola. Invece all’università cominciarono a comparire le giovani che facevano parte del gruppo rivoluzionario vestite con pantaloni jeans di velluto blu a costine e maglioncini in tinta, una sorta di divisa. Avrei dato non so cosa per indossarla, ma mia madre non me l’avrebbe mai permesso. Il tratto fondamentale che contraddistingueva la mia partecipazione – come penso quella di molti – era l’incoscienza. Un’appassionata incoscienza che ci portava a fare anche cose molto pericolose, come partecipare a manifestazioni che sarebbero finite a manganellate, in cui qualche volta ci scappavano morti e feriti. Andavamo non tanto per passione politica, quanto per essere lì, per respirare quell’aria eccitante e avere la sensazione di vivere la storia, invece di subirla. […]
Il femminismo fu un grande fervore intellettuale, innanzitutto: bisognava rivedere il mondo con sguardo diverso. Certo, si è un po’ esagerato in ideologia, ma qualcosa di positivo di questa fase è rimasta viva nella nostra cultura e l’ha arricchita. Con il femminismo le donne hanno ottenuto finalmente autorevolezza e rispetto, si possono cimentare in tutti i campi, libere di essere giudicate per quello che valgono, e non in base alla loro avvenenza e gioventù o alla loro condotta morale. […]
Allora c’è stata indubbiamente la ricerca di nuovi modelli femminili a cui ispirarsi, ma c’era anche l’esaltante sensazione di essere le prime: le prime donne a parlare in una riunione professionale o scientifica, le prime a viaggiare da sole per il mondo incuranti dei pericoli, le prime a inventare nuove strade in cui saper cucinare conviveva con una grande voglia di affermazione professionale. Era sorprendente scoprire che uscire a cena con un’amica poteva essere più divertente che uscire con un uomo. Ho vissuto le ferite e le difficoltà, ma anche l’entusiasmo e la forza positiva di questo grande cambiamento. Soprattutto, ricordo la sensazione di essere delle pioniere: ci dovevamo inventare tutto, non avevamo la minima idea di dove andare e di quali conseguenze le nostre scelte avrebbero portato nella società. Se eravamo in tante a farle, cambiava tutto: questa era l’unica cosa di cui eravamo sicure.
Giulia Galeotti: Non sono però mancati gli aspetti negativi.
Lucetta Scaraffia: Indubbiamente, nel tentativo di scrollare secoli di oppressione, molte donne sono andate troppo avanti nel rifiuto della loro specificità, del loro corpo, percorrendo così una strada che le ha portate a comportarsi in un modo sempre più simile a quello degli uomini. In particolare, sono state due le grandi lacune in questo veloce processo di emancipazione: da una parte, la dimenticanza della radice cristiana della parità fra i sessi, dall’altra la liquidazione acritica del progetto di miglioramento che le prime femministe – quelle di fine Ottocento – attribuivano alla presenza femminile nella sfera pubblica. Le prime femministe, infatti, non mettevano in dubbio la differenza sessuale, anzi la esaltavano, attribuendo un valore molto positivo a questa specificità, in particolare per la morale delle donne, che nasceva dalla dedizione materna. Speravano che la presenza femminile nella sfera pubblica avrebbe migliorato la società rendendola più umana e morale. Una differenza abissale con quella che effettivamente è stata l’emancipazione quando si è realizzata, quando cioè le donne sono diventate sempre più simili agli uomini, pensando così di arrivare più facilmente a godere dei loro privilegi.
Tutto ciò che veniva attribuito alla sfera femminile – dai lavori di cura alla maternità vera e propria – è stato perciò svalutato e queste attività sono state disprezzate come mai era successo nella storia. Cucire, accudire anziani e bambini, pulire e mettere in ordine sono operazioni che – appena uno se lo può permettere – vengono oggi delegate alle persone che stanno nello strato più basso della scala sociale, cioè agli immigrati. Siamo arrivati al punto che esiste perfino la maternità surrogata, cioè la possibilità di affittare l’utero di una donna – bisognosa, ovviamente – perché porti a termine una gravidanza per altri.
Lucetta Scaraffia in dialogo con Giulia Galeotti, La Chiesa delle donne (Città Nuova, 2015), pp. 116, € 12,00