Il fascino dell’astratto

Nella vita, a ben vedere, le sorprese sono quotidiane. Così, uno sguardo di sfuggita ad un marmo, nella mostra romana di via del Corso, ridesta in noi non solo l’attenzione, ma un sussulto di vita. Quel blocco – il Torso di Alberto Viani (1948) – si anima, quasi ridestandosi dal sonno: e, finalmente, “parla”. Dice cose che prima non avevamo mai capito. Il Torso è levigato come una roccia dal vento e dall’acqua: la sua è una bellezza impalpabile, in cui la luce modula musicalmente le superfici, rende morbide le curve: ma non ha inizio né fine. È un corpo-che-non-ha-corpo, finito ed infinito. Creato dallo spazio, nello stesso tempo ne crea uno nuovo, di spazio. C’è qualcosa di arcaico ed anche di nuovissimo, un tipo particolare di bellezza: non sarà quella, così affascinante, dell’essere vero delle cose, della loro natura, che è luce? È la meraviglia dell’arte “astratta”: cogliere l’essenza di ciò che esiste. Di qui il suo fascino, l’istintiva evocazione di un’altra dimensione. È quanto si coglie pure in un autore radicalmente diverso, un “poeta del frammento” come Alberto Burri. Dolorosamente ancorata al presente, nel Sacco SPI (1956) di una povertà voluta, la luce si fa introversione, materia lacerata, colore terragno. Una processione di “anime stanche”, i sacchi di Burri cantano un linguaggio “informale” necessario: la loro assenza di splendore cromatico, è prima di tutto privazione di chiarezza mentale, buio dell’anima che ha perso la sua “forma”. Un’astrazione al contrario, rispetto a quella di Viani, che rimanda a pensieri di fragilità umana: un’arte meditativa, chiusa in un dilemma: finito o infinito, qual è il destino dell’uomo? Ma un’arte così grande non resta raggomitolata, perché Burri, brano dopo brano, a ben vedere, ci porta alle soglie di una possibile verità. Essa, la verità, è forse “al di là delle nuvole”, per dirla con Antonioni? Il Concetto spaziale di Lucio Fontana (1951), seducente microcosmo di olio sabbia blu e argento, propone una poesia cromatica giocata su una “navigazione all’infinito”: un ruggito quasi dello spirito, un voler penetrare nel Cielo. Con l’intuizione degli artisti, Fontana “crea” viaggi nel cosmo di rara potenza: siamo noi, uomini di un nuovo Millennio, ormai soggiogati da “spazi sovrumani” alla ricerca di “sovrumani silenzi”, dove ritrovare la sorgente di noi stessi. Opere come questa (o come la Spirale di Roberto Crippa, 1951) sono bagliori luminosi di vita, risposte intuitive alla nostra ricerca di senso. Come sono intense queste tre voci, sintesi di mille altre che percorrono il primo cinquantennio del secolo, fra suggestioni d’Oltralpe, ricerche e smarrimenti, in una complessità di stili che segnano la ricerca – ancora un volta, da secoli – della vera bellezza. Dal Futurismo all’Astrattismo. Roma, Museo del Corso. Fino al 7/7 (catalogo de Luca). 83 opere divise in percorsi storico-artistico-didattici di primario interesse, a documentare la ricchezza variegata della “via italiana” del secolo XX.

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