Il faro di Blackwater

Il dolore divide, il dolore unisce. Siamo in Irlanda, nei primi anni Novanta. Da bambini, Helen e Declan avevano sofferto per l'”abbandono” della madre Lily, troppo occupata ad assistere il marito gravemente ammalato, e per questo affidati alla nonna materna, nella sua casa arroccata su una scogliera. Questo dramma inespresso, che aveva allontanato i quattro nelle successive vicende della vita, ora ritorna alla luce: è quando Declan, ammalato terminale di Aids, affida alla sorella il compito di rivelare alla madre la verità. Madre e figlia poi, sempre per desiderio del giovane, vanno a trascorrere qualche giorno con lui da nonna Dora, in quella casa solitaria divenuta luogo idealizzato dell’infanzia e del ricordo. A rendere più precario l’equilibrio dei rapporti dopo anni di silenzio ostile, è l’arrivo di Larry e Paul, due amici di Declan, gay come lui e surrogato ad una famiglia inesistente. Ovvio che la convivenza fra tre donne e tre uomini così diversi per generazione, mentalità e modo di vita, risulti all’inizio faticosa, piena di incomprensioni e pregiudizi. Ben presto, però, il mistero del dolore che tutti interpella fa piazza pulita di maschere e difese personali, sicché quello stare insieme si trasforma in un viaggio della memoria, alla scoperta della propria identità e di quella altrui. È un desiderio di rivelarsi che si esprime, talvolta, attraverso colloqui ora duri ora teneri. E tutto nella descrizione di momenti ordinari, nei quali può ritrovarsi ognuno; tratteggiando personaggi assolutamente naturali, che s’imprimono nell’anima: soprattutto quello della nonna, certamente il più riuscito. Quando Declan dovrà abbandonare il suo rifugio sulla scogliera e attendere la fine nell’ospedale da cui proviene, nulla è più come prima: qualcosa come uno sprazzo di luce è balenato fra i personaggi, trasformandoli. Viene da pensare a Cristo diventato capace, sulla croce, di “attirare tutti a sé”, quale centro unificante di ciò che era disperso, raggelato, separato. Tutto questo racconta, con una prosa misurata e lirica, Il faro di Blackwater, struggente romanzo sulla famiglia e sull’amore, che ha consacrato Colm Tòibín tra i narratori irlandesi dell’ultimo decennio più significativi per la sua ricerca del senso dell’esistenza. LUI COSÌ FORTE, LEI COSÌ FEDELE. Fonte di sicurezza e di speranza per i naviganti, il faro ha una funzione simbolica in questo romanzo. Non a caso, nell’evolversi della vicenda, a far da sfondo ai ricordi o a certi colloqui è il fascio di luce che esso fa arrivare fin nella casa di nonna Dora. Eccolo protagonista di questo brano. “Una volta c’erano due fari qui – disse sua madre -. Non so perché ci fosse bisogno dell’altro… Forse il Mar d’Irlanda era più trafficato e c’erano tratti pericolosi. Era proprio lì… no, un po’ più a nord, verso Cush e verso la casa della nonna. Te lo ricordi, Helen?”. “Sì, mamma, ma solo quando eravamo bambini”. “È stato messo fuori uso dalla società che controlla l’illuminazione qui intorno. Non so esattamente quando “, disse sua madre. “Come si chiamava?”, chiese Paul. “Si chiamava il faro di Blackwater. Era più debole di quello di Tuskar. Quello di Tuskar si ergeva sulla roccia ed era fatto per durare, credo. Però a me piaceva quando ce n’erano due. Immagino che poi la tecnologia si sia sviluppata, o forse non ci sono tante navi come una volta. Il faro di Blackwater… io pensavo che sarebbe sempre esistito”. Si avviarono lentamente verso Ballyvaloo. Helen rimase indietro con sua madre. Gli altri tre andarono avanti, con Declan che camminava in mezzo a Larry e a Paul. Helen notò che il fascio di luce non passava quando lei se lo aspettava. Ogni volta le sembrava che arrivasse troppo presto. “Quand’ero piccola e abitavo a casa di tua nonna e di sera aspettavo di addormentarmi nel mio letto – disse sua madre -, credevo che Tuskar fosse un uomo e il faro di

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons