Il faraone col mondo sulle spalle

Contemplando Akhenaton nel Museo Egizio del Cairo. Il fascino di una civiltà legata come poche altre al trascendente, che ha nutrito la nostra occidentale
Akhenaton

Guardare negli occhi un egiziano di oltre tremila anni fa, beninteso al Museo Egizio del Cairo, è un’emozione unica. Specie se si tratta non di uno qualunque, ma di Akhenaton, il “faraone eretico” che circa milletrecento anni prima di Cristo sconvolse le tradizioni religiose dei suoi padri introducendo il culto di un dio unico, Aton, rappresentato dal disco solare.
 
È in atteggiamento e vesti da re, nel colossale frammento scultoreo in arenaria proveniente da Karnak, quanto diverso dal celebre gesso conservato a Berlino che lo raffigura: se quello, infatti, è un ritratto di straordinaria intensità, naturalistico nelle irregolarità del volto, eppure tutto spirituale (un modello limitato al volto e privo di attributi regali, che doveva servire per replicare le immagini ufficiali),  davanti allo stesso personaggio da Karnak c’è di che rimanere stupefatti: pur restando inconfondibilmente sue, le fattezze del giovane faraone hanno subìto una deformazione al limite della caricatura, quasi a indicare quanto sia fallibile la creatura umana. È il riflesso anche nell’arte del rivoluzionario programma innovativo perseguito da Akhenaton in campo religioso, e di cui tanti splendidi esempi ci sono giunti da Akhenaton-Amarna, la città santa che questo sovrano del Nuovo Regno fondò in onore di Aton.
 
Civiltà tra le più affascinanti, quella dell’antico Egitto, dove una statua rendeva realmente presente chi vi era effigiato, la parola scritta era considerata identica a quella pronunciata e una scena dipinta aveva il potere di “far essere” ciò che rappresentava. Un Paese dalla storia millenaria, che si era evoluto per “aggiunte”, nel senso che aveva accolto il nuovo senza scartare nulla di quanto ereditato: senza traumi, in continuità con la tradizione. (Unica eccezione, il già ricordato tentativo di Akhenaton, risultato poi fallimentare, in quanto dopo i sedici anni di regno di questo sovrano le antiche credenze, troppo radicate nel popolo, erano state reintrodotte).
 
Emblema di questa civiltà, il faraone. Uomo o dio, o l’uno e l’altro? In effetti le statue spesso colossali di questi sovrani lasciano senza parole per la potenza sovrumana che esprimono. Ma al di là delle fattezze idealizzate – talvolta così tanto che un faraone poteva “usurpare” tranquillamente le effigi di qualche predecessore facendole passare per sue –, questi personaggi aureolati di divino erano pur sempre dei mortali con sentimenti, affanni, debolezze comuni a tutti gli uomini; e come tali dovevano appellarsi anch’essi alla benevolenza degli dei, soprattutto per quanto riguardava il loro destino ultraterreno.
 
E proprio il carattere divino del faraone e la sua natura umana sono gli aspetti evidenziati nella straordinaria serie di ritratti presenti nel Museo: sia che venga rappresentato nei diversi attributi della regalità, ritualista o costruttore di templi, intercessore tra gli uomini e gli dei, vittorioso sui nemici e sulle forze cosmiche, sia nei fasti della corte o nell’intimità della famiglia, sino all’ultimo viaggio verso l’aldilà. Nell’intimità della famiglia… e anche qui l’arte amarniana ci ha lasciato dei veri capolavori – quasi finestra per sbirciare nella vita privata del faraone. Mi viene da pensare alla stupenda stele calcarea a Berlino, dove Akhenaton e la bellissima sposa Nefertiti s’intrattengono teneramente con tre delle loro figlie: una scena inaccettabile secondo i canoni dell’arte tradizionale, che evitava di raffigurare il sovrano in atteggiamenti troppo “umani” per non sminuirne la maestà. Certo che doveva avere spalle forti un faraone! Tutto l’universo poggiava su di lui, che aveva ricevuto il mandato di preservare dal male e dal caos il mondo e gli esseri umani, assicurando giustizia, pace e prosperità.
 
È una storia, questa, che ce ne ricorda un’altra. In origine Ra, il dio creatore, risiedeva sulla Terra governando di persona la propria creazione, in cui nessuno mancava di niente. Purtroppo, incapaci di reprimere i loro istinti malvagi, gli uomini complottarono contro la sua autorità, scatenando la vendetta del dio: ma dopo aver sterminato parte dell’umanità, Ra ebbe pietà dei superstiti, e prima di ascendere al cielo – dove trasferì ogni perfezione che faceva del soggiorno terrestre un vero eden – lasciò un suo vice: il primo faraone. Si tratta della versione egizia del “peccato originale”, come ci è riportata da un testo delle tombe reali del Nuovo Regno, il Libro della Vacca del Cielo.
 
Figlio di dio, eppure bisognoso dell’approvazione e della protezione della divinità per giungere anche lui all’immortalità beata; re e sacerdote al tempo stesso, il faraone doveva esercitare la giustizia fra gli uomini e onorare gli dei (tra cui sono annoverati i defunti); adoperarsi per restaurare sulla Terra l’ordine primigenio e opporsi al disordine e alla rovina che dall’interno e dall’esterno minacciano la creazione. Sovrano assoluto, quindi, ma “per delega”, che grazie alla sua funzione riceveva onori divini e tuttavia poteva essere privato dei carismi necessari all’esercizio di essa dall’eventualità di una condotta indegna.
 
Nell’approccio a una civiltà così complessa, il rischio è di farsi coinvolgere solo superficialmente dagli aspetti curiosi o estetici delle opere esposte, laddove invece tutto è simbolo e veicola un preciso messaggio. Del resto, la stessa scelta dei colori non è casuale: l’azzurro turchese come l’elemento acquatico promette rinascita; il nero bitume evoca l’ambiente oscuro della rigenerazione; il giallo oro è simbolo di eternità e colore solare come la divinità creatrice; il rosso e il bianco contraddistinguono le due corone dell’Alto e Basso Egitto (combinate poi in un unico copricapo, lo pschent, simboleggiano l’unità del Paese incarnata dal re). Un pendente a forma di cuore può apparire solo un gioiello di pregio: amuleto, serviva invece a sostituire l’organo rappresentato nel caso che venisse distrutto. Semplici decorazioni i rilievi e gli affreschi con raffigurazioni palpitanti di vita della natura? No, un modo di controllarne le forze avverse e di ripristinarla nell’armonia originaria.
 
E cosa pensare delle singolari statue-cubo? Un enigma per chi non immagina che in queste figure accovacciate era effigiato il defunto trasferito dalla transitorietà terrena alla vita immortale. Sì, l’immortalità. E protesa a raggiungerla si consumò l’intera civiltà egizia, come poche altre sulla Terra.

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