Il dramma degli attentati
Non ci sono chiavi di lettura sufficienti a comprendere cosa ci sia veramente dietro all’ondata di attentati terroristici, con centinaia di vittime, che dilagano da alcuni giorni, a cominciare dai kamikaze di Qaa, in Libano, per proseguire con l’aeroporto Ataturk di Istanbul, il ristorante di Dacca e il centro commerciale di Baghdad, per non citare che i fatti più noti. Si può comunque azzardare un’ipotesi parziale, senza pretendere impossibili spiegazioni esaustive né sforare in un “complottismo” di maniera che lascia il tempo che trova.
Una prima lettura la si può fare a partire dalle vittime degli attentati: cristiani a Qaa, turisti a Istanbul, stranieri a Dacca, sciiti a Baghdad. Un’altra lettura la si può fare a partire dalle conseguenze degli attentati: grossi danni inferti al turismo e all’economia, paura e ricorso all’autodifesa, vendette che incrementano spirali di morte.
L’impressione è che l’invito a celebrare il Ramadan con attentati contro il nemico, che Daesh (IS o ISIL) avrebbe diramato all’inizio del mese islamico di digiuno, sia stato accolto da qualcuno dei gruppi che si collegano al variegato arcipelago dei jihadisti. Tanto più che la situazione sul terreno si fa di giorno in giorno più difficile nel territorio controllato dalle truppe internazionali raccolte sotto la bandiera nera del califfato. Raqqa, in Siria, è circondata, i governativi irakeni hanno ripreso il controllo di Tikrit, Ramadi e Falluja, e l’alleanza libica si appresta a dare il colpo di grazia ai fondamentalisti della Sirte.
Conquiste, è importante sottolinearlo, rese possibili dal supporto aereo degli occidentali e da quello economico di alcuni governi islamici a cui non mancano i petrodollari. Se a questo quadro si aggiungono le armi che circolano praticamente senza limiti né controlli, il quadro appare senza soluzione. Non sarà certo la sconfitta di Daesh a porre fine a questa catena di morte. Il fondamentalismo jihadista ha ormai capito che, per sopravvivere, può solo nascondersi e sparare nel mucchio spostando gli obiettivi sempre più in periferia rispetto al conflitto siriano.
Nella speranza (spes ultima) che cresca un vasto consenso di opinione pubblica intorno al controllo e alla messa al bando della vendita di armi, mi colpisce la serenità e la fermezza del vescovo melkita di Baalbeck. Mons. Rahal è originario proprio di Qaa, una cittadina di 15 mila abitanti in maggioranza cristiani, accanto alla quale vivono in un campo profughi non ufficiale almeno 30 mila rifugiati siriani. “Cristiani e musulmani vivono gli uni accanto agli altri e continueranno a farlo anche in futuro, senza paura”, ha affermato il vescovo ai funerali delle 5 vittime dell’attentato kamikaze del 27 giugno scorso. Parole dense e forti, pronunciate da un nativo di quella terra, alla presenza di migliaia di concittadini.