Il dopo Sanremo. Restaurando s’impera

Qualche considerazione a mente semi-fredda dopo il clamoroso successo dell’ultimo festival di Sanremo.
carlo conti

Anche se la 65esima edizione è già un ricordo che sta sbiadendo, ha indubbiamente lasciato il segno. E’ germogliata, s’è consumata, ed è svaporata senza strepiti e senza acuti (tranne quelli de Il Volo, naturalmente), ma ha anche sancito una restaurazione nelle logiche d’assemblaggio su cui si continuerà a dibattere a lungo, nei palazzi del potere televisivo, non meno che nei bar. Perché questo festivalino miracolosamente ingrassato dagli ascolti oltreché dagli spot, con le sue convenzioni imbolsite, i suoi algoritmi neo-baudeschi, le sue marchette, le stelle filanti e quelle cadenti, ha indubbiamente funzionato.

Una domanda circola un po’ d’ovunque: ma com’è possibile che il Sanremo più noioso e imbolsito degli ultimi dieci anni sia stato anche il più visto? Due le risposte plausibili: forse perché in questi tempi ansiogeni la noia non è poi così male, o più probabilmente, perché ormai i fruitori della tivù, alla noia sono così assuefatti da non riuscire neanche a farne a meno.

In ogni caso una restaurazione sorprendentemente premiata dagli ascolti, in barba alla relativa pochezza del budget, a quella oggettiva del cast e delle canzoni, e ai plebiscitari dileggi dell’intellighenzia mass-mediatica.

Passata la sbornia cosa ne rimane? Certo non le canzoni, la maggioranza delle quali finiranno presto col giacere nei polverosi depositi dell’oblio discografico; piuttosto il consolidarsi di un postulato noto da tempo: la resa definitiva del Festival – e dunque dell’apogeo della tivù generalista all’italiana – ai diktat del proprio target. La furbizia di quel masterchef del nazional-popolare che è Carlo Conti è stata tutta qui: corteggiare lo zoccolo duro degli affezionati (autentici o coatti, importa poco), rispettandone i desiderata anziché rincorrere altri inarrivabili bacini d’utenza: da qui buonismi trasversali, kitsch e volgarità ridotte o comunque camuffate da progressismi trendy, un prodotto dignitosamente tradizionalista, il profilo basso di chi ha capito per tempo che le grandeur del passato erano non solo fuori portata, ma perfino controproducenti.

            In ogni caso lo show ha dimostrato che Sanremo è sempre – ed ancora – Sanremo: un pacioso sessantacinquenne tenuto arzillo dai soliti frullati di amenità e tematiche delicate messe in piazza con la grazia di un wrestler, con le sue nostalgie canagliesche a supplire l’incapacità di guardare avanti o anche solo d’uscire dalla propria autoreferenzialità. Un pensionato ancora più che in carriera, toscanizzato e democristiano quant’altri mai: dunque inutile sperare che ringiovanisca (finirebbe col sembrar patetico), inutile pretendere che si faccia da parte visto che è lo specchio fedele di chi l’ha mantenuto e coccolato in questi decenni; tutt’al più gli si imponga una cura dimagrante, e magari di smetterla di spacciare per alta moda i suoi lustrini da balera: ché il Paese che gli gira intorno non solo non è più quello sempliciotto e spensierato della sua giovinezza, ma meriterebbe anche una rappresentazione di sé che lo emancipi una buona volta  – o almeno una volta ogni tanto – dai suoi consunti stereotipi. Non dimentichiamoci che, grazie ai canali di Rai Italia, Sanremo arriva in tutto il mondo, dunque se ne tenga conto: a meno che l’Italia nostra – di cui Sanremo dovrebbe essere un ingrediente marginale e non certo il fiore all’occhiello – non voglia continuare a crogiolarsi nei suoi endemici e pittoreschi provincialismi: quelli che, guarda caso, piacciono tanto ai suoi detrattori.

 

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