Il dolore universale
Io ho sempre paura quando si giunge a fare una "classifica" dei dolori...
La vigilia di Natale, a cena da mia figlia, eravamo undici. Ho cucinato dalla mattina, e poi ho portato tutto di corsa da lei: c’è il piccolo (cresce, eh! nove mesi oramai… prima o poi ne parleremo) e tutto si svolge lì da loro, inevitabilmente.
Dopo cena, mentre tutti erano ancora a tavola, lei è andata sul divano per dare il latte col biberon al piccolo, prima della nanna.
E io sono andato sulla poltrona di fronte a godermi lo spettacolo.
Lui beveva, felice in braccio alla mamma, con le sue braccia rilassate, serene, nel vuoto.
Una luce, a quella vista: "…e Suo è il dolore universale e quindi mio".
Quella scena, che in qualche modo mi evocava Michelangelo, La Pietà, pur in situazioni completamente differenti, mi ha illuminato sul sottinteso, che forse nemmeno io avevo colto appieno, del mio ultimo intervento sul blog: "Il nome del dolore".
Questo stare nelle braccia di chi ti ama…
Nel frattempo mi ha scritto Max, dopo aver parlato di lui nel post ultimo:
Io ho sempre paura quando si giunge a fare una "classifica" dei dolori.
Penso i bambini delle favelas che rovistano nell’immondizia non per cercare scarti da riciclare, ma per trovare qualcosa da mangiare .
Oppure a una amica molto robusta che, anni fa, viveva un momento di depressione per il suo stato fisico, nulla in confronto ad altri patimenti. Ma in quel momento, quello era per lei un dolore straziante e insopportabile, anche se insignificante per altri.
Mi chiedo sempre quale sia il punto più basso del dolore, quello che è al limite della sopportazione, che appena ti riesci a mantenere in vita.
Penso che la sola cosa che possa superare il dolore sia la dignità. Conservare la dignità è sapere che quel dolore, qualsiasi esso sia, ti nobilita e ti rende unico. Ecco, credo che oltre le parole e le "prediche" sentite in tanti anni, solo Gesù che muore in croce abbandonato dal Padre abbia dato dignità al dolore.
Mi viene in mente quando sono stato a Lourdes, due anni fa ormai. Difficile spiegare a parole, ma la sensazione, fortissima, è che "quel" mondo non si divide in fortunati (quelli che sono sani e in piedi sulle proprie gambe) e sfortunati (quelli sulle sedie a rotelle o allungati ai lettini, attaccati ai respiratori artificiali). Ma il dolore, la sua dignità, prevale su ogni cosa.
Davanti ad una ragazza, bellissima, con un sorriso dolcissimo, costretta su una sedia a rotelle, ti senti una nullità, non perché ti "vergogni" di essere sano, ma perché avverti che lei è tutto e tu sei niente.
Pensa, quando mia madre mi invita a pranzo la domenica, lei lo fa per offrirmi, oltre ad un pasto completo, un momento di spensieratezza, eppure io rinuncerei all’invito solo perché, da 20 anni, per mettere un giacchino a mio figlio o anche solo per vestirlo, con la sua disabilità psicomotoria, è una lotta che ti lascia senza forze. Mangerei pane e acqua, pur di evitare per una volta di vestirlo. Eppure è un "dolore" insignificante, ma ormai lo tollero sempre meno, perché è così e così sarà sempre. Non ha fine, non ha consolazione.
Sarà l’età che avanza, lo stato fisico non più efficiente come un tempo, ma questa solitudine fisica (e psicologica) la avverto pesantissima in questo ultimo periodo. Forse sto idealizzando, le realtà sono sempre diverse dai nostri sogni (in fin dei conti la mia esperienza matrimoniale dovrebbe dimostrarmi il contrario) ma per tenermi in vita devo poter pensare a qualcosa di positivo, anche se irrealizzabile.
Il guaio è quando comincio a pensare che è irrealizzabile, che mi viene lo scoramento.
Grazie del tuo pensiero e della tua condivisione, Paolo.
Il fatto di restare senza parole dinanzi alle questioni che ti pongo, non lo intendo come leggerezza o disinteresse, anzi, mi sento più compreso di quanto tu possa pensare. 😉
Un abbraccio!
Max
Dopo cena, mentre tutti erano ancora a tavola, lei è andata sul divano per dare il latte col biberon al piccolo, prima della nanna.
E io sono andato sulla poltrona di fronte a godermi lo spettacolo.
Lui beveva, felice in braccio alla mamma, con le sue braccia rilassate, serene, nel vuoto.
Una luce, a quella vista: "…e Suo è il dolore universale e quindi mio".
Quella scena, che in qualche modo mi evocava Michelangelo, La Pietà, pur in situazioni completamente differenti, mi ha illuminato sul sottinteso, che forse nemmeno io avevo colto appieno, del mio ultimo intervento sul blog: "Il nome del dolore".
Questo stare nelle braccia di chi ti ama…
Nel frattempo mi ha scritto Max, dopo aver parlato di lui nel post ultimo:
Io ho sempre paura quando si giunge a fare una "classifica" dei dolori.
Penso i bambini delle favelas che rovistano nell’immondizia non per cercare scarti da riciclare, ma per trovare qualcosa da mangiare .
Oppure a una amica molto robusta che, anni fa, viveva un momento di depressione per il suo stato fisico, nulla in confronto ad altri patimenti. Ma in quel momento, quello era per lei un dolore straziante e insopportabile, anche se insignificante per altri.
Mi chiedo sempre quale sia il punto più basso del dolore, quello che è al limite della sopportazione, che appena ti riesci a mantenere in vita.
Penso che la sola cosa che possa superare il dolore sia la dignità. Conservare la dignità è sapere che quel dolore, qualsiasi esso sia, ti nobilita e ti rende unico. Ecco, credo che oltre le parole e le "prediche" sentite in tanti anni, solo Gesù che muore in croce abbandonato dal Padre abbia dato dignità al dolore.
Mi viene in mente quando sono stato a Lourdes, due anni fa ormai. Difficile spiegare a parole, ma la sensazione, fortissima, è che "quel" mondo non si divide in fortunati (quelli che sono sani e in piedi sulle proprie gambe) e sfortunati (quelli sulle sedie a rotelle o allungati ai lettini, attaccati ai respiratori artificiali). Ma il dolore, la sua dignità, prevale su ogni cosa.
Davanti ad una ragazza, bellissima, con un sorriso dolcissimo, costretta su una sedia a rotelle, ti senti una nullità, non perché ti "vergogni" di essere sano, ma perché avverti che lei è tutto e tu sei niente.
Pensa, quando mia madre mi invita a pranzo la domenica, lei lo fa per offrirmi, oltre ad un pasto completo, un momento di spensieratezza, eppure io rinuncerei all’invito solo perché, da 20 anni, per mettere un giacchino a mio figlio o anche solo per vestirlo, con la sua disabilità psicomotoria, è una lotta che ti lascia senza forze. Mangerei pane e acqua, pur di evitare per una volta di vestirlo. Eppure è un "dolore" insignificante, ma ormai lo tollero sempre meno, perché è così e così sarà sempre. Non ha fine, non ha consolazione.
Sarà l’età che avanza, lo stato fisico non più efficiente come un tempo, ma questa solitudine fisica (e psicologica) la avverto pesantissima in questo ultimo periodo. Forse sto idealizzando, le realtà sono sempre diverse dai nostri sogni (in fin dei conti la mia esperienza matrimoniale dovrebbe dimostrarmi il contrario) ma per tenermi in vita devo poter pensare a qualcosa di positivo, anche se irrealizzabile.
Il guaio è quando comincio a pensare che è irrealizzabile, che mi viene lo scoramento.
Grazie del tuo pensiero e della tua condivisione, Paolo.
Il fatto di restare senza parole dinanzi alle questioni che ti pongo, non lo intendo come leggerezza o disinteresse, anzi, mi sento più compreso di quanto tu possa pensare. 😉
Un abbraccio!
Max
(dal blog di Paolo Ricci)