Il dolore e l’amicizia divina

Gabriel Mulimbi è sopravvissuto ad un’aggressione armata e ha trovato nel perdono pace e libertà
Gabriel Mulimbi in riceve la visita in ospedale di due donne appartenenti al Movimento dei Focolari.

Gabriel è un giovane 29enne proveniente dalla Repubblica Democratica del Congo. Quarto di 8 figli, è laureato in Ingegneria civile nella sua città, Lubumbashi. Dopo la triennale ha studiato una magistrale in Costruzione edile, e nel 2020 ha iniziato a lavorare insieme ad un amico nell’elaborazione progettuale.

Finalmente si sentiva contento, in armonia; le cose sembravano andare per il verso giusto e poteva iniziare a pensare a comprare una casa e forse a formare una famiglia. Aveva tutte queste cose in cuore mentre tornava dal matrimonio di una coppia amica. La cerimonia era stata bellissima e la gioia si era respirata in ogni canto intonato insieme.

Finita la festa, attorno alle 19, un amico gli dà un passaggio in macchina. Si fermano a poche decine di metri da casa sua e, dopo essersi salutati, Gabriel si mette le cuffie e prende la sua strada. In quel momento varie persone escono dalla chiesa perché la Messa è appena finita, e una signora gli fa notare che qualcuno lo chiama. Un po’ distratto, cerca di capire se parlano con lui e si rende conto che è un militare quello che lo cerca. Appena vi si avvicina, quest’ultimo carica l’arma.

Gabriel non capisce cosa gli stia dicendo, perché gli parla in una lingua diversa dalla sua. «Sembrava un incubo – mi racconta il giovane –. Sono andati via tutti e siamo rimasti da soli io e lui. Ho alzato le mani e mi ha sparato due volte sulla mano sinistra. Sono caduto a terra e, appoggiato sulla mano destra, ho iniziato a spostarmi verso una caserma militare, ma quando da dentro mi hanno visto hanno chiuso la porta».

In quel momento Gabriel si gira e rimane di fronte al militare, il quale gli dice: «Nasilisi», che in lingala significa «Voglio finire con te». Dopodiché gli spara ripetutamente sulla pancia e poi se ne va. Trascinandosi, con gli organi fuoriusciti appoggiati sulla mano, si avvicina alla strada per farsi vedere. «Non sentivo nessun rumore – ricorda –, vedevo come la gente scappava. Passavano tante macchine, ma nessuno mi aiutava perché erano diffidenti, avevano timore che fossi un trafficante, e se si fermavano era per farmi questo tipo di domande; mi facevano persino delle foto da inviare in tv o alla polizia».

Allora si rende conto che il sangue gli scorre dall’orecchio fino alla bocca, e che quando prova a parlare sputa sangue, e si ricorda che nei film questo accade alle persone prima di morire.

I genitori, completamente alieni alla situazione, si rilassano a poca distanza da lì: il papà innaffia i fiori, la mamma guarda la tv… è domenica sera e nessuno ha a portata di mano il proprio cellulare. Per questo, le chiamate di Gabriel rimangono inascoltate. Poi, come un fulmine, si ricorda di un amico che vive non distante da casa sua e prova a chiamarlo, una, due, quattro volte, senza risposta. Sentendo che non può fare più niente, manda un vocale al gruppo della famiglia raccontando l’accaduto e salutandoli per sempre. Chiude gli occhi e inizia a pensare alle persone con cui ha qualche tipo di inimicizia. Poi inizia un’intensa preghiera e gli viene in mente una canzone che fa così: «Tieni la mia vita, Signore, che la mia vita sia una preghiera, che la mia morte sia una preghiera».

Sono passate varie ore ed è già tarda serata quando Gabriel sente la voce di sua sorella che lo chiama. Arriva anche suo padre, che tenta invano l’aiuto dei militari e dell’ospedale. Finalmente, verso le 23, una macchina si ferma e si rende disponibile a portarlo al centro ospedaliero. Vuole parlare, ma ogni volta che gli esce la voce perde le poche energie che gli sono rimaste. Alle 23.40 il giovane è già in sala operatoria.

Oltre ai parenti, vi sono i suoi amici che svolgono uno stage in quell’ospedale. Man mano arrivano gli amici di sua sorella che erano alla festa di matrimonio, seminaristi, sacerdoti e membri del Movimento dei Focolari vicini alla famiglia. L’intervento finisce alle 5 di mattina, e Gabriel si sente chiedere dal medico se fosse un politico, perché fuori sono radunate circa 150 persone. Davanti a una tale mobilitazione, il ministro della Salute si reca in ospedale per capire cosa sia successo e di chi si tratti; «tutti si chiedevano chi fossi», aggiunge il giovane ingegnere.

La sera viene trasferito al centro ospedaliero più grande della zona. Ha problemi respiratori e gli manca il sangue, che gli viene donato perfino da persone che non conosce. Mentre sale in ambulanza, vede piangere i suoi familiari e gli sorride per tranquillizzarli. È un’esperienza forte, capiscono che Gabriel ha bisogno di loro, e che nonostante tutto è vivo!

Persone nella cappella dell’ospedale in preghiera per la vita di Gabriel Mulimbi.

Gabriel subisce 6 interventi in una settimana ed entra in coma. Per un mese non parla, non mangia e arriva a pesare 35 chili. Passano altri due mesi, durante i quali i membri dei Focolari vanno quotidianamente a trovarlo e persone anche da lui sconosciute pregano per la sua vita nella cappella dell’ospedale. Un giorno, in una delle visite, una signora gli dice: «Chiara Lubich ha bisogno di te!». «In Paradiso?», si chiede Gabriel. «No! L’ospedale!». Si tratta di un piccolo ospedale situato a Lubumbashi dove un focolarino chirurgo avrebbe potuto operarlo.

La proposta risulta quasi folle, dato che il paziente si trova in uno dei migliori ospedali ed ha creato dei rapporti bellissimi con tutto il personale sanitario, ma la decisione spetta a Gabriel. Una sera, vedendo che sono passati già tre mesi e poco o nulla è cambiato, comunica al suo medico: «Voglio morire all’ospedale di Chiara».

Il giovane racconta così questo passaggio: «Quando ho incontrato il chirurgo, ho affidato la mia vita nelle sue mani. I Focolari si sono presi una responsabilità, direi piuttosto una croce enorme. L’intervento è durato dalle 8 alle 15; quando la sera mi sono risvegliato, mi sentivo come una macchina che riparte, è stata un’esperienza di Dio». Undici giorni dopo torna a casa e riprende a camminare.

Per tanti versi Gabriel percepisce che Dio ha operato in lui un miracolo: per circa tre ore è rimasto a terra mentre perdeva sangue, gli organi non sono stati perforati e dopo 7 interventi erano in perfetto stato, i proiettili hanno toccato l’osso del bacino e tuttavia riesce a camminare, e, soprattutto, è riuscito a perdonare.

«Mentre ero in ospedale – narra il giovane –, ricevevo tutti i giorni l’Eucaristia. Era un periodo in cui il Vangelo parlava sempre del perdono… fino a 70 volte 7. Ho passato tutta una sera a chiedermi: “Perché non posso perdonare il mio aggressore?”. Il giorno dopo mi sono confessato e ho chiesto aiuto al Signore per perdonarlo. Poi ho sentito una pace fortissima che mi ha liberato e la mia vita è iniziata a cambiare molto velocemente, ho sentito l’accompagnamento di Dio che fino ad oggi non mi ha mai abbandonato».

Gabriel non sa chi l’abbia sparato, perché dopo l’incidente tutti si sono concentrati sulla sua ripresa e l’indagine è passata in secondo piano; ma non gli interessa neanche: «Se lo incontrassi per strada, vorrei vederlo come una persona nuova. Prego molto per lui, tanto che penso si sia convertito. Non voglio che l’esperienza che ho attraversato la viva qualcun altro, perciò chiedo a Dio di trasformare il suo cuore».

Prima di questo miracolo d’amore Gabriel si faceva tante domande: «Cosa ho fatto? Chi mi vuole così male? Dio sa che le mie mani sono il mio lavoro, perché io?». Poi ha vissuto un momento di grazia: ha capito che doveva offrire la sua sofferenza a Dio perché portasse frutto. Da lì in poi, ogni volta che si guarda la mano o la pancia dice: «Per te, Gesù».

Dopo essere uscito dall’ospedale riprende le piccole attività che faceva prima. Agli altri risulta difficile capire che rida pur sentendo dolore, e pensano che stia bene, che la sofferenza sia già passata. Tuttavia, gli aspettano ancora lunghi anni di terapia, interventi e riabilitazione. In questo contesto riceve, per la terza volta, l’invito di spostarsi a Loppiano per fare un anno di formazione sul carisma dell’unità alla Scuola Gen (giovani dei Focolari). Gli era già stato suggerito in passato, ma non aveva accettato per motivi di lavoro; ora invece capisce che Dio lo chiama a stare lì. Si trasferisce in Italia, dove riesce a proseguire con le cure.

«Come stai ora?», gli chiedo alla fine del nostro incontro. «Sono felice, perché la mia felicità è basata sulle piccole cose di ogni giorno. Il dolore passa, è più importante la persona che ti viene a trovare e ti porta la gioia. Nella vita queste cose arrivano all’improvviso e bisogna essere pronti ad accoglierle».

Nelle sue riflessioni trapela che ha qualcosa da fare su questa Terra, che può offrire al mondo la sua presenza. Si chiede: «Perché dobbiamo avere paura della sofferenza? Anche nei momenti di sofferenza Dio è con noi, io sento che mi accompagna e non ho paura di raccontare la mia storia; anzi, Lo ringrazio perché questa esperienza mi ha aiutato ad avvicinarmi ancora di più a Lui e a scoprire la Sua amicizia nel dolore. Dio affida le battaglie più difficili ai suoi migliori soldati».

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