Il diritto di uccidere

Da non perdere il film di Gavin Hood, dramma etico sulla responsabilità della guerra, con Helen Mirren nei panni del colonnello americano che dirige le operazioni contro un covo di terroristi. Tante le uscite di inizio stagione, mentre sta per aprirsi il Festival di Venezia
Il diritto di uccidere di Gavin Hood

Il diritto di uccidere

A Nairobi, in Kenya, tre terroristi islamici ricercati da anni da Inghilterra e Usa (due di loro sono cittadini inglesi e americani) preparano un attentato suicida in un supermercato, che farà almeno 80 vittime. Vengono seguiti dall’intelligence angloamericana con strumenti perfetti notte e giorno, pronti a intervenire per distruggere il covo con un missile. Solo che vicino va e viene una bambina che vende il pane. Colpire comunque, ferendo mortalmente la piccola pur di evitare una strage più grande o fermarsi davanti a questa orribile possibilità? Il problema è etico, certamente. Le posizioni divergono: i politici, specie quelli britannici, tentennano e fanno gli scaricabarile, il segretario di Stato americano e il generale sono per l’azione immediata insieme al colonnello che dirige le operazioni: una perfetta, lucida Helen Mirren, determinatissima all’intervento a qualsiasi costo. Tutti naturalmente cercano di proteggersi alle spalle con avvocati, per evitare contestazioni future. Ma non tutti sono  d’accordo, in primo luogo i due giovani soldati che devono sganciare il missile. Teatralmente drammatico, con un crescendo spasmodico che fa salire la tensione e costringe lo spettatore a prendere una posizione – in accordo o meno con il finale emozionante –, il film diretto da Gavin Hood è quanto mai attuale e diventa in effetti un dramma etico sulla responsabilità di chi fa la guerra – da qualsiasi parte stia –, di come la fa e delle conseguenze sugli innocenti. Ovvero su gran parte della popolazione. Recitazione perfetta. Da non perdere.

 

El Clan

Vincitore a Venezia nel 2015, questo durissimo, implacabile racconto nell’Argentina degli anni Ottanta è l’esempio di come una coscienza indurita possa esser capace di unificare tranquillamente un comportamento schizofrenico in vista di uno scopo politico-sociale discutibile. La famiglia Puccio è esemplare: il padre ha un negozio sportivo, i figli sono obbedienti, uno è un campione di rugby, la madre servizievole. Pregano prima del pranzo, vanno in chiesa, ma tengono prigionieri in casa degli ostaggi. Arquimedes, il padre, infatti, collegato ai servizi segreti di destra, cattura persone sgradite, le imprigiona in casa: a loro, se non pagano, si dà la morte. I figli non sanno o fingono di non sapere: solo uno si ribella. Crollata la dittatura, i conti non tornano più per la famiglia Puccio: il padre, dopo l’ergastolo, è morto nel 2012.
Il film diretto con rara sagacia e forte senso drammatico da Pablo Trapero, è una scossa gelata, soprattutto perché si tratta di una storia vera e recente. Fa pensare a chissà quanti altri mostri si nascondono dietro la faccia di gente perbene e di come una coscienza possa diventare algida di fronte alla violenza. Formidabile la recitazione di Guillermo Francella, padre affettuoso e criminale inscalfibile, pressante la musica rock – vietata allora in Argentina – a scandire il clima di durezza della vicenda, dove l’apparente normalità delle classi borghesi nasconde la prepotenza della dittatura, di ogni dittatura. Da non perdere.

 

Escobar

Un film feroce, a dir poco. L’ingenuo surfista canadese Nick (Josh Hutcherson) si reca dal fratello Dylan in Colombia per praticare il suo sport, ma incontra la bellissima Maria e conosce il suo carismatico e misterioso zio Pablo Escobar, benefattore dei poveri. In realtà lo zio è una mente criminale che gestisce un traffico internazionale di coca, spietato con chi non lo segue. Nick se ne accorge e cerca di sfuggire alla spirale in cui sta precipitando, ma sarà tutt’altro che facile. Verrà ferito negli affetti più cari, lui stesso non saprà più chi sia in verità, sarà sottoposto a scelte decisive, ma l’amore per Maria potrebbe essere la salvezza. Drammatico, incalzante, il primo film da regista dell’attore Andrea Di Stefano pulsa di sangue, di dolore e di morte. È uno sguardo dentro a un mondo di narcotrafficanti dove non esiste la pietà, quella che il giovane è ancora capace di provare. Prova superba dell’attore Benicio Del Toro, in piena  trasformazione fisica e psicologica con lo scorrere del film, l’opera affronta la storia vera di questo criminale, morto nel 1993, fondatore del cartello di Medellin, già rivisitata dal cinema da Johnny Depp nel 2001 e di prossima uscita con Javier Bardem e Penelope Cruz.

 

Mia madre fa l’attrice

Mario Balsamo gira e interpreta un piccolo ma intenso film dove lui è un regista in perenne conflitto con la madre ottantacinquenne (Stefania Stefanini, perfetta) con la quale vorrebbe girare un film autobiografico, tanto più che lei è stata davvero un'attrice negli anni Cinquanta. Surreale, ma non troppo, il racconto è una rivisitazione di un passato tutt’altro che pacifico tra i due, un confronto su un rapporto tuttora irrisolto. La madre, per quanto originale, dispensa parole di saggezza sulla vita, la malattia, la morte e anche sul suo stesso film, recuperato dopo decenni, in cui lei capisce di non essere stata quella grande attrice che pretendeva. Il tempo ridimensiona tutto. Il film vive di una tristezza malinconica, non pesante, ma vera che dà senso alle visite ai luoghi del passato: le città, i parenti, la bisca, il cimitero (forse la scena più densa e commovente nel suo silenzio). Si sono ritrovati madre e figlio alla fine di questo percorso a ritroso nella vita? E ciascuno dei due ha ritrovato sé stesso? Girato in modo sobrio, recitato con verosimiglianza, il prodotto è particolare, un film da festival ma che vale la pena vedere, per commuoversi e pensare.

 

L’effetto acquatico

Cosa non si fa per conquistare una donna, anche nel XXI secolo. Samir è uno spilungone quarantenne, operaio nella periferia parigina, che s’innamora della difficile Agathe, istruttrice di nuoto, fingendo di dover imparare a nuotare. Lei però lo scopre e non sopportando i bugiardi se ne va in Islanda. Lui non demorde e la insegue, inventandosi di essere un rappresentante del popolo palestinese. Gaffes, bugie e rincorse per amore. L’islandese Sólveig Anspach non solo si diverte a farci vedere la propria terra ghiacciata e libera, ma anche a raccontarci la buffa impresa eroicomica per amore. Soggetto principale è l’acqua: quella della piscina, quella dell’oceano che divide lui e lei e quella che li può riunire. Chissà… Spiritosi e simpatici gli interpreti, lei la bizzosa Florence Loiret Caille e lui l’ingenuo ma temerario Samir Guesmi. Un bel divertimento in stile francese. Esce il 30 agosto.

 

La famiglia Fang

Divertimento, aria surreale e una sbirciata dentro una famiglia di due artisti concettuali che scioccano il pubblico con le loro stravaganti performance e si divertono da matti. Ovvio, educano – si fa per dire – i figli al loro mestiere. Solo che questi, cresciuti, non ne vogliono sapere, anche perché non sono mai davvero cresciuti: Annie è un’attrice più da rotocalco che da grande schermo; Baxter è uno scrittore in crisi. Ma poi capita che i figli siano costretti a ritornare dai loro eccentrici genitori che d’improvviso spariscono. La polizia si preoccupa, loro invece pensano all’ennesimo trucco per stupire la gente. Sarà vero? Certo che l’occasione è perfetta per rivedere l’infanzia, ripensare il rapporto con i genitori, riscoprire quello che c’era di strampalato e, perché no, ritrovare forse sé stessi. È tutto ritmo il film diretto da Jason Bateman che però, al di là del racconto ironico e pimpante, scava nella psicologia familiare e nelle relative problematiche con tocchi commoventi perché interrogano lo spettatore, pur con leggerezza. Chi non ha ricordi spiacevoli dell’infanzia e bisogno di definire veramente sé stesso? Un bel film, merito di attori strepitosi. Una Nicole Kidman, raramente così brava e naturale, un Jason Bateman (il regista) credibile, e poi Christopher Walken, con la faccia vampiresca, nei panni del padre. Anche spiritoso e bizzarro. Esce il primo settembre.

 

Jason Bourne

Quarto episodio della saga dello smemorato sicario della CIA, reduce dal Vietnam alla ricerca di sé stesso in un mondo super tecnologizzato, vede ovviamente ancora protagonista Matt Damon. L’attore è decisamente migliorato sotto ogni punto di vista da quando ha girato il primo film della serie. Il film? Il regista Paul Greengrass punta all’azione e allo spettacolo, che non manca di sequenze emozionanti, come quella girata in piazza Syntagma ad Atene. Bourne è sempre in fuga: lo vogliono morto in parecchi, tra cui il perfido Vincent Cassel e il nuovo direttore dell’agenzia Tommy Lee Jones. È forse una metafora dell’uomo nell’oggi, in un mondo colpito da terrorismo, controllo tecnico, rapporti disumanizzati. Perciò l’azione, notturna e diurna, è fatta di esplosivi frammenti più che di un legame contenutistico che unisca la e le storie. Spettacolo grandioso, adrenalinico, attori carismatici. Ora però che Bourne ha (quasi) ritrovato sé stesso, sarebbe forse bene non proseguire con un sequel. Esce il primo settembre.

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