Il diritto amministrativo e la sfida della cittadinanza attiva
La trasformazione delle società moderne esige cambiamenti anche riguardo a norme e comportamenti che sinora ne hanno costituito punti certi di riferimento. Il diritto, e soprattutto il diritto amministrativo, deve mostrare nuove relazioni giuridiche tra istituzioni e soggetti pubblici e privati.
Il diritto amministrativo ha una giovane età; ha visto, infatti, il suo sorgere solo nel XIX secolo quando, a partire dalla Francia napoleonica e postnapoleonica, si affermò l’idea di uno Stato che detiene il monopolio del potere di imperio e di coazione e lo esercita attraverso un apparato ad hoc costituito[1]. Tale idea ha determinato il rapido sviluppo di questa branca del diritto, per poter dare spazio alla giuridica tutela dei soggetti privati destinatari degli atti e provvedimenti dell’amministrazione[2].
I diritti, pur affermati e riconosciuti all’interno delle leggi e delle Carte costituzionali, hanno mostrato quindi, dinanzi al potere autoritativo statuale, una subordinazione, finendo col ridurre la loro natura di diritti a quella, inferiore, di “interessi legittimi”[3], ossia di diritti di minor rilevanza rispetto alla preponderante potestà statuale.
Tale netta distinzione è apparsa però via via sempre più contrastante e improponibile in ambito nazionale ed oggi lo è ancor di più, di fronte alla incidenza delle regole dell’ordinamento comunitario[4].
Certamente esistono garanzie di legittimità e liceità degli atti amministrativi e di tutela dei diritti dei soggetti giuridici nei confronti del potere pubblico; ma le odierne crisi economiche e politiche mostrano una difficoltà di sopravvivenza del diritto amministrativo e, con esso, di questa tutela dei diritti dei cittadini.
Ma è proprio in tale situazione che, a mio avviso, il diritto amministrativo può mostrare le sue potenzialità e capacità di divenire punto di riferimento.
La cittadinanza attiva oggi si sta affermando come principio proprio del diritto pubblico comunitario[5]; essa conduce ad attribuire al cittadino europeo un patrimonio giuridico “variabile” nello spazio e nel tempo: esso consiste nell’estensione, a suo beneficio, dei diritti previsti a favore dei suoi propri cittadini, da ciascun ordinamento statale con il quale entra in contatto.
Questo principio è affermato dalla dottrina quale “dimensione costituzionale” della cittadinanza europea; ne troviamo conferma da parte della
Corte di giustizia secondo la quale «lo status di cittadino dell’Unione è destinato ad essere lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri che consente a chi tra di essi si trovi nella medesima situazione di ottenere, indipendentemente dalla nazionalità e fatte salve le eccezioni a tal riguardo espressamente previste, il medesimo trattamento giuridico»[6].
L’applicazione di tale principio ha significative conseguenze sui primari principi costituzionali del diritto al lavoro (art. 1 Cost.), del diritto di proprietà (art. 42 Cost.), del diritto di libero svolgimento di attività economiche, del diritto ad un’equa retribuzione e conseguente diritto ad adeguato trattamento pensionistico (artt. 35 ss. Cost.), nonché dei fondamentali diritti alla salute (art. 32) ed all’accesso alla formazione scolastica e professionale, oltre che al libero esercizio e svolgimento delle attività culturali e artistiche (artt. 33, 34 Cost.), del diritto e dovere di accesso ai pubblici impieghi mediante concorso pubblico (art. 97 Cost.).
La negazione di questi principi e diritti fondamentali preminenti e costitutivi del diritto di cittadinanza attiva produrrebbe un evidente quanto insuperabile conflitto tra attività statale e accettazione dei principi comunitari.
Sotto questo aspetto sottolineo la gravità delle violazioni del diritto di cittadinanza attiva intervenute nell’ambito nazionale italiano riguardo ad alcuni punti fondamentali: le modalità di erogazione e controllo dei trattamenti pensionistici soprattutto in danno dei soggetti meno abbienti e capaci; le modalità e i criteri di conferimento di attività proprie del pubblico impiego e in materia di istruzione scolastica e, di seguito, rispetto ai principi di libera scelta della rappresentanza politica e sindacale.
Riguardo alla misura delle pensioni dei dipendenti pubblici è evidente, già dagli ultimi quindici anni, la mancanza di alcuna certezza nei lavoratori per il proliferare di disposizioni legislative aventi quale finalità esclusiva il “contenimento della spesa pubblica”[7] e non il giusto compenso per il lavoro svolto e che, attraverso le ritenute previdenziali proporzionate allo stipendio riconosciuto, ha già dato negli anni di lavoro il suo specifico contributo alle finanze pubbliche.
Il principio costituzionale di generale accesso al pubblico impiego mediante concorso (art. 97, comma 3°, Costituzione), ha visto già dal 1977[8] ridotta al lumicino la sua validità.
Sempre più estesa è stata l’attribuzione di posti del pubblico impiego in assenza di concorsi pubblici, avendo proceduto le pubbliche amministrazioni alle assunzioni del personale seguendo il principio di una asserita “discrezionalità”[9].
Il caso più evidente e grave per i diritti di cittadinanza, che incide anche sulla reale salvaguardia della salute pubblica, è quello delle nomine ed incarichi dei primari ospedalieri, affidati a scelte valutative da parte di soggetti (dirigenti generali delle Unità Sanitarie Locali) privi di cognizioni professionali sanitarie[10].
Al riguardo e conclusivamente in ordine alla presente sintetica esposizione (di cui chiedo venia) mi preme offrire, quale possibilità di utile applicazione dei principi che sono propri del diritto amministrativo ed utilizzabili in ambito nazionale, il riferimento alla efficacia possibile e praticabile delle norme sul procedimento amministrativo fissate già dalla legge 7 agosto 1990, n. 241 ed oggi esplicitamente arricchita dalle ulteriori disposizioni di cui alla Legge 11 febbraio 2005, n. 15.
Si tratta di norme che già da tempo erano state elaborate dalla dottrina del diritto amministrativo[11]e che – via via ed in coincidenza con lo sviluppo del diritto comunitario europeo – hanno mostrato la possibilità per il cittadino di appropriarsi della conoscenza degli atti della pubblica amministrazione: dei loro presupposti, della reale motivazione da cui traggono origine, della effettiva esecuzione[12].
In effetti, i principi di partecipazione, condivisione e comunione dei diritti e delle aspirazioni di ciascun soggetto parte attiva del procedimento medesimo, possono costituire il “luogo giuridico” di corretto e comune svolgimento delle relazioni tra i vari soggetti dell’ordinamento giuridico, in essi inclusi i rapporti e le relazioni tra cittadini, soggetti privati e amministrazioni pubbliche.
Ma questo esige un reciproco riconoscimento da parte di tutti i soggetti coinvolti e, soprattutto, capacità piena di ascolto e comprensione reciproci dei diritti ed interessi da ciascuno affermati e tutelati.
Una possibilità ed una scelta che già attraverso il “luogo online” offertoci da Nuova Umanità possiamo cominciare e continuare ad esplorare.
Nino Gentile – Avvocato del Foro di Modica (RG)
[1] S. Cassese, Il diritto amministrativo europeo presenta caratteristiche originali?, in «Riv. trim. dir. pubbl.», 2003, 1, 35; R. Greco, Il diritto amministrativo europeo dopo il trattato di Lisbona, Relazione svolta al Corso di formazione per magistrati amministrativi tenutosi presso il T.A.R. della Campania il 6 giugno 2011.
[3] V. Salvatore Giacchetti, Dalla «amministrazione di diritto pubblico» allo «amministrare nel pubblico interesse», in «Foro amm.vo», Cds 2006, 7-8, 2349.
[4] Ibid.
[5] S. Amadeo, Il principio di eguaglianza e la cittadinanza dell’Unione: il trattamento del cittadino europeo “inattivo”, in «Dir. Un. Eur.» 2011, 01, 59, che richiama M. Dougan, The constitutional dimension of the case law on Union citizenship, in «European Law Rev.», 2006, p. 613.
[6] Corte giust. 20 settembre 2001, causa C-184/99, Grzelczyk, in Racc., p. I-6193, cpv. 31.
[7] Tra gli altri v. art. 72 del decreto legge n. 112 del 2008, convertito con modifiche nella legge 133 del 2008. Giusta appare al riguardo l’osservazione secondo cui «il legislatore, lungi dall’adottare tecniche procedurali e partecipative, subordina la fuoruscita del personale ad una determinazione discrezionale dell’amministrazione» (C. Di Carluccio, L’esperimento del pensionamento forzoso del dipendente pubblico con quarant’anni di anzianità contributiva, in «Lavoro nelle p.a.», 06, 1137).
[8] Legge 1 giugno 1977, n. 285.
[9] Un principio affermatosi e praticato già in virtù dell’art. 6, comma 5°, della legge n. 127 del 1997; ma in contrasto con le regole della discrezionalità amministrativa, che esige particolari motivazioni e finalità. Principio, piuttosto, riferibile al concetto di “arbitrarietà”, ossia di scelta senza motivazione giuridica, o principio di cd. “spoils system” all’italiana (cf. G. Gardini, Sulla costituzionalità delle disposizioni in materia di dirigenza pubblica “spoils system” contenute nelle recenti manovre finanziarie, in «Foro Amministrativo», TAR, 09, 2968). Principio che, in termini brevi, fa dipendere le nomine e gli incarichi dei dipendenti pubblici dai particolari indirizzi politici dei componenti i governi nazionali, regionali, locali.
[10] Art. 15 ter Decreto Legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 del 1992 e ss. modifiche ed integrazioni.
[11] A.M. Sandulli, Il procedimento amministrativo, Milano, Giuffré 1940 (ristampato nel 1959).
[12] R. Chieppa – M. Nigro e la disciplina del procedimento amministrativo, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 2010, p. 667.