Il diritto all’oblio sul web
Poche settimane fa, la Corte di giustizia europea ha sancito il riconoscimento del diritto all’oblio sul web, ossia il diritto di far cancellare quei link che rendono pubblici, senza un motivo specifico, dati (di solito di natura giudiziaria) non più rilevanti relativi a un singolo cittadino. La sentenza è stata emessa dopo la denuncia di un cittadino spagnolo, il quale lamentava il fatto che digitando il proprio nome su Google comparissero sempre, tra i primi risultati di ricerca, degli atti giudiziari che lo avevano riguardato, ma erano stati archiviati e si riferivano a circa venti anni prima.
Tra mille polemiche, Google ha risposto alla sentenza della Corte proponendo, pochi giorni fa, un modulo online per richiedere la cancellazione dei link riguardanti dati personali e annunciando l’istituzione di una commissione per la valutazione delle richieste.
Il problema, semplificando un po’, è questo: internet e i social media rendono possibile un’inedita mappatura della nostra esistenza; cosa mangiamo a colazione, dove e a che ora facciamo rifornimento, cosa compriamo al supermercato e che film andiamo a vedere al cinema la sera. Tutti questi dati vengono registrati in rete, più o meno col nostro implicito placet, attraverso le condivisioni, i like, i commenti che facciamo sui social network ecc. Tutti questi dati rimangono sul web, per sempre. E ogni futuribile datore di lavoro, assicuratore, investitore, vicino di casa o conoscente potrebbe facilmente accedervi per farsi un’idea (un pregiudizio a tutti gli effetti) su chi siamo.
Si potrebbe obiettare, e molti lo hanno fatto, a partire da Eric Schmidt, presidente del Consiglio di amministrazione di Google, che si tratta di informazioni che ciascuno ha il diritto di conoscere. Ma è un’argomentazione fragile espressa da quella prospettiva, a cui ha risposto, tra gli altri, anche il sociologo Evgeny Morozov solo pochi giorni fa: il “diritto di sapere” è già violato continuamente da Google e altri motori di ricerca quando rimuovono risultati sotto la pressione di editori, produttori e fornitori di contenuti.
Beppe Severgnini, editorialista del Corriere della Sera, ha proposto questo esempio per illustrare il suo punto di vista sulla vicenda: fate conto, dopo una cena con gli amici, di salire in macchina un po’ alticci, di perdere il controllo dell’auto e demolire un negozio di abbigliamento. È una di quelle storie che, alcuni anni dopo, sarebbe meglio non far sapere troppo in giro, soprattutto se nel frattempo avete pagato il vostro conto con la giustizia.
In questo senso, ben venga la sentenza della Corte europea. Ma, argomenta Severgnini, la sentenza è zoppa, perché se esiste un diritto all’oblio dovrebbe essere universale e coinvolgere tutti media, non solo internet. La notizia del vostro incidente potrebbe essere nelle pagine dei giornali locali ma, tanto per dire, cosa sarebbe necessario fare nel caso della carta stampata per seguire le indicazioni della Corte e rispettare il diritto all’oblio: bruciare tutte le copie d’archivio dei quotidiani che menzionano l’accaduto? Sarebbe minacciata la libertà d’informazione…
L’impressione però, è che la sentenza della Corte si scagli non tanto contro il diritto di pubblicare legittimamente dei contenuti (i fatti non si possono cancellare e, pur volendo, il caso Wikileaks dimostra quanto sia poco efficace al giorno d’oggi una strategia del genere per nascondere qualsiasi fatto), ma l’organizzazione e la gerarchizzazione e delle informazioni sul web.
Dopo (o prima) aver rotto una vetrina in seguito a un incidente, potreste essere stati membri attivi di un’associazione umanitaria, potreste aver dato da mangiare ai poveri in una mensa della vostra città ogni sera, fatto bene il vostro mestiere ed essere stati ottimi genitori, ma digitando il vostro nome su Google comparirebbe sempre la vicenda su voi che ha fatto più clamore, che ha più stuzzicato la curiosità delle persone: l’incidente in cui avete rotto una vetrina. Questo risultato risponde a un criterio di realtà, si dice, ma sembra difficile da sostenere. Viene da pensare, invece, che risponda più alle esigenze di una società del gossip, in cui l’individuo non ha più strumenti per difendersi dalla notiziabilità della propria esistenza.
La sentenza della Corte europea si muove in direzione opposta a chi sostiene che non esista più una distinzione tra pubblico e privato, e offre agli individui uno strumento per arginare il paradosso di un sistema dei media talmente autoreferenziale da arrivare al punto di voler far credere che una rappresentazione della realtà possa essere la realtà stessa e che ogni tentativo di ridimensionare questa pretesa sia un attacco alla libertà di espressione.