Il Dio ignoto di Golding

È ambientato a Delfi, presso il celebre santuario di Apollo, il romanzo postumo dello scrittore britannico Premio Nobel: un uomo che ha inseguito il mistero per tutta la sua esistenza
Santuario di Apollo a Delfi

Santuario tra i più celebri dell’antichità classica, sede oracolare del dio Apollo, quello di Delfi era considerato il centro del mondo. Siamo nella regione ellenica della Focide, a 500 metri di altitudine e ad 8 chilometri in linea d’aria dal Golfo di Corinto. In questo luogo sacro già in epoca pre-greca, aggrappato alle pendici del Parnaso ricco di abeti e ginepri, si ergono le rovine aeree di quello che fu un venerando tempio dorico con 6 colonne sulla facciata e 15 per ogni lato. Nella sua lunghissima esistenza, durata fino all’affermarsi del cristianesimo, esso subì incendi e terremoti e dovette essere più volte ricostruito. Un complesso di norme regolava le consultazioni ordinarie e straordinarie e i riti in onore della divinità. In un locale sotterraneo (l’àdyton) una donna di Delfi eletta profetessa a vita con l’obbligo della verginità – la Pizia – seduta su un tripode pronunciava sentenze che venivano poi messe per iscritto in esametri omerici. Misteriosi vapori esalanti dal pavimento contribuivano al suo stato di trance. Non è leggenda: recenti ricerche hanno verificato che il tempio sorge su una faglia da cui potevano essere emessi ingenti quantità di Radon, gas capace effettivamente di indurre a uno stato allucinogeno. Si spiegherebbero così l’oscurità e frammentarietà dei vaticini.

Delfi e la sua profetessa sono al centro del romanzo di William Golding La doppia voce, pubblicato postumo nel 1995, a due anni di distanza dalla scomparsa dello scrittore britannico. Prima però di addentrarmi in quest’opera singolare, è opportuno dire qualcosa sull’autore. Golding era agnostico, eppure credeva nel peccato originale. Ne aveva fatta prova in grande stile partecipando in prima persona agli orrori del Secondo conflitto mondiale; poi, da insegnante, ne aveva costatato gli effetti – meno evidenti, ma reali – nei suoi allievi, a contatto con le loro turbolenze, le loro piccole guerre. Tutto il disincanto e il pessimismo circa la creatura umana, tutta la polemica circa le convenzioni della sua epoca vittoriana Golding li riversò ne Il signore delle mosche, un libro denso di simboli che, denunciando il male radicato fin dalla più giovane età, mandava all’aria la teoria del “buon selvaggio” di Rousseau. E prendeva le distanze dalle robinsonnade esaltanti l’intraprendenza, l’ordine, il ruolo civilizzatore dell’uomo bianco – anglosassone in particolare – allorché, naufragato in un’isola deserta, viene alle prese con i problemi della sopravvivenza e del rapporto con le popolazioni indigene.

Il romanzo, da cui fu tratto anche un film di culto, meritò a Golding nel 1983 il Premio Nobel. Tuttavia la sua fama oscurò i successivi (e, occorre dire, meno facili) titoli, nei quali lo scrittore proseguiva la sua tormentata ricerca di non credente «attratto dal mistero della vita e dalle dolorose contraddizioni degli esseri umani»: Uomini nudi, La guglia, L’inviato dell’imperatore, Il Dio Scorpione e Ai confini della terra. Una esauriente introduzione alla narrativa di questo autore, tra i grandi del Novecento, è L’ombra delle mosche di Luca Fumagalli, edito da Il Cerchio. Vi si delinea il suo percorso letterario: da una iniziale netta sfiducia nelle possibilità di redenzione dell’essere umano, ferito dalla caduta di Adamo, ad una progressiva possibilità di bene, fermo restando l’enigma rappresentato dalla complessità del mondo e del cuore dell’uomo.

Ma torniamo alla sua opera postuma, ambientata nella Grecia decadente, e ormai sottomessa al giogo di Roma, del I secolo a. C. Protagonista è Arieka, scelta a impersonare l’oracolo di Apollo a Delfi proprio in un periodo di grave crisi del santuario; l’altro personaggio di rilievo è il sacerdote Ionides, ateo convinto, desideroso solo di sfruttare la fama della ragazza per ridare nuovo lustro a Delfi, ma poi contagiato dalla fede di lei. La sua fine priverà la giovane di una guida, ma prima di morire Ionides consegna ad Arieka una chiave raffigurante una scure bipenne, simbolo del potere minoico. Decisa a far luce sullo strano oggetto, la profetessa si reca presso la grotta del tempio, il luogo recondito dove hanno origine le sue divinazioni, e con quella chiave apre una porta da sempre interdetta: dietro scopre il nulla, o meglio la roccia del monte su cui sorge il santuario. A conclusione del racconto, l’ormai anziana Ariecka viene informata dall’arconte di Atene che la città riconoscente vuole onorarla con una statua. La risposta della Pizia: meglio erigere un altare al dio sconosciuto. Un richiamo all’episodio degli Atti degli apostoli che vede san Paolo annunciare la buona notizia agli ateniesi? Una profezia sull’avvento del cristianesimo?

Anche se siamo lontani dal pessimismo dei suoi esordi letterari, in quest’ ultimo romanzo definito da McCarron una «meditazione sul dubbio» Golding si ferma sulla soglia del mistero. Il titolo La doppia voce sta a indicare, da una parte, la sibillina oscurità delle parole di Apollo, dall’altra il fatto che egli ha bisogno, per comunicarsi, del tramite umano rappresentato dalla sua profetessa. In sintesi, a caratterizzare lo stile e il contenuto del libro sono l’ambiguità, la non decifrabilità del rapporto tra l’uomo e Dio, anzi l’incertezza stessa sull’esistenza di Dio. Fedele è la ricostruzione storica, mentre certi atteggiamenti moderni dei personaggi e i  voluti anacronismi stanno a indicare la costante preoccupazione dell’autore di rimanere in dialogo col mondo attuale.

Riassume in certo modo la poetica di Golding questa sua risposta non priva di senso dell’humour, rilasciata nel corso di un’intervista: «Trovo difficile non credere in Dio, se è questo che vuol sapere, ma non sta qui il nocciolo del problema. La mia preoccupazione è che Dio creda in me».

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