Il Dio delle vittime e il carnefice senza riposo

Nel caso Priebke emerge il mistero del male nella storia, che va attraversato senza rimanerne prigionieri e che si sconfigge attraverso il mistero della fraternità. Un approfondimento dalle proteste della gente alle parole di papa Francesco
lager

La morte di Priebke, uno dei responsabili in prima persona dell’eccidio delle Fosse ardeatine ha prodotto qualcosa di torbido nel Paese, o per meglio dire, ha fatto emergere qualcosa di torbido nel Paese.

La questione, ad oggi, non risolta dei funerali e della sepoltura sembra aver scatenato umori latenti e mai definitivamente risolti. Osserva acutamente Sofri, sulla Repubblica: «in un quartiere di Roma abitava e camminava un criminale di guerra nazista e… nessuno l’aveva fatto oggetto di offese e tanto meno di azioni violente. Questa era una notizia e spero che l’opinione pubblica di altri Paesi europei non se ne dimentichi».

Tutto questo non nasceva da una dimenticanza, da una distrazione, ma forse da qualcosa di più radicale: il vero modo di fare memoria della Shoa non è la vendetta permanente verso coloro che si sono macchiati di un crimine al limite dell’indicibilità, ma una parola, che sembra assolutamente fragile, mentre invece è fortissima: “perdono”.

Sono stato due volte ad Auschwitz, sono salito molte volte a sant’Anna di Stazzema e a Montesole. Sono stato al Museo dell'Olocausto a Gerusalemme. Si sperimenta solo un assoluto silenzio, che unico può custodire una tragedia cosi immane: milioni di vittime innocenti.

Non solo sono stati uccisi i corpi, ma è stato amputato il potenziale di vita e di amore, che la loro storia custodiva. La quasi totalità di loro non ha avuto un funerale e una sepoltura. Eppure, oggi e domani, sono vivissimi nella nostra memoria come appello al perdono e alla riconciliazione.

Il loro grido muto, davvero dalla fossa, domanda una “cosa nuova”, che non sia prigioniera del meccanismo della vendetta e del fare della violenza uno strumento di giustizia. C’è bisogno innanzi tutto e prima di tutto di verità. Quella verità che Priebke ha violato fino all’ultimo giorno con il suo memoriale, la dove chiama “cucine” le camere a gas.

Innanzi tutto la verità: la verità storica, la verità del processo, la verità dei fatti. La verità, che non può dimenticare il più piccolo dei bambini, uccisi dal nazismo e da Priebke, in tutta Europa. Una verità che diventa memoria di nomi, di storie, di relazioni, di incontri. Niente deve essere perduto, neanche la verità del patibolo, che inchioda ciascuno alle sue responsabilità, non solo per quello che ha fatto, ma anche e soprattutto per quello che non ha fatto. Da quel patibolo inizia la via del perdono.

È dalla verità continuamente trasmessa che nasce il perdono. Non è vero che solo gli uccisi possono perdonare, altrimenti il perdono non esisterebbe. I sopravvissuti sarebbero anch’essi in qualche modo colpevoli.

Invece il perdono è la parola scandalosa per l’oggi e per il domani. Vittime sono anche i familiari, la comunità e le comunità che sono deprivate della storia, dell’amore, della vita di chi viene ucciso. E oggi la loro parola e la loro testimonianza custodisce questa memoria.  

La verità consegnata dona la possibilità di uscire dalla prigionia della vendetta e della rappresaglia e della falsificazione, che oggi vediamo in molti comportamenti: da quelli dell’avvocato del criminale nazista, ai preti lefevriani scomunicati, al prefetto di Roma, che rapidamente voleva risolvere una pratica burocratica, da chi ha preso a calci la bara a chi ha usato quella bara per far riemergere il demone della violenza.

Il corpo va sepolto, proprio perché non vogliamo e non possiamo essere come Priebke, che questa sepoltura non ha voluto dare a milioni di morti in tutto il mondo.

Ce lo ricorda Antigone: c’è una fraternità nella sepoltura, che non può essere cancellata, pena la perdita della nostra umanità. Ce lo ricorda la storia di Caino e Abele. Ce lo ricorda il cantico di Lamec: "Ho ucciso un uomo per una scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settantasette” (gen.4,23-24).

C’e’ un mistero di male nella storia (“misteryum iniquitatis”) che va attraversato senza rimanerne prigionieri e che si sconfigge attraverso il mistero di fraternità che ci unisce con tutti i fratelli, anche con quelli che sono parabola di violenza.

Sulla verità della storia, su quel patibolo si fonda la riconciliazione e il perdono. Parola difficile, ma senza le quali tutto è perduto. Non si esce dal circolo tragico della violenza, che anche oggi ha molti volti e molte storie non solo nell’uccisione dei dittatori, ma anche nella violenza senza limiti che travolge molti Paesi, senza un cambiamento radicale di mentalità, senza una conversione.

Priebke è morto alla vigilia del settantesimo anniversario della deportazione degli ebrei romani.

Il papa, parlando alla delegazione della comunità ebraica, cosi dice: «Faremo memoria e pregheremo per tante vittime innocenti della barbarie umana, per le loro famiglie. Sarà anche l’occasione per mantenere sempre vigile la nostra attenzione affinché non riprendano vita, sotto nessun pretesto, forme di intolleranza e di antisemitismo, a Roma e nel resto del mondo. L’ho detto altre volte e mi piace ripeterlo adesso; è una contraddizione che un cristiano sia antisemita. Un po’ le sue radici sono ebree. Un cristiano non può essere antisemita! L’antisemitismo sia bandito dal cuore e dalla vita di ogni uomo e donna! Quell’anniversario ci permetterà anche di ricordare come nell’ora delle tenebre la comunità cristiana di questa città abbia saputo tendere la mano al fratello in difficoltà».

Sono parole esigenti, che chiamano alla via della riconciliazione e del perdono, perché nel tempo della prova suprema non si è persa la carità dilatata, una carità costosa presso i fratelli, su cui si era scaricata la violenza del mondo.

Il perdono è lo sguardo di Dio su di noi, uno sguardo, che perdona l’imperdonabile. E che ci ricostituisce come fratelli. È lo sguardo da un patibolo, fuori dall’accampamento, fuori dalle mura della città, di un Dio abbandonato nella fossa, di un Dio vittima.

Quel Dio, che secondo il racconto di Elia Diesel, nel suo libro “La notte” è riconoscibile nel bambino alla cui impiccagione assiste ad Auschwitz, e in Anna Maria Fiori, come racconta Dossetti nell’introduzione alle Querce di Monte sole, bimba di otto anni, che è rimasta per tre giorni in agonia aggrappata al collo della madre morta, finché il babbo l’ha trovata così uccisa dalla fame e dal dolore.

Tutto questo va consegnato nel silenzio, fuori da opportunismi, astuzie, e furbizie politiche e religiose, perché solo questo silenzio tramanda la memoria delle vittime e la loro parola di pace.

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