Il dio della danza

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Eppure, per la maggior parte della vita, lui non ha danzato. Lui, Nijinskij, che il pubblico parigino aveva immortalato le dieu de la danse, spese gli ultimi 30 anni della sua vita lontano dai palcoscenici dei teatri europei che lo avevano osannato. Costretto da una grave malattia mentale, rimase avulso dal mondo dello spettacolo: chiuso fra i muri di casa o più spesso tra quelli meno accoglienti dei manicomi. Come ballerino è un mito: celebrato per la sua grazia sovraumana, per i salti leggendari che parevano sfidare la legge di gravità. Undici minuti di ballo nell’indimenticabile Pomeriggio di un Fauno di Debussy o l’interpretazione della Sagra della Primavera di Stravinskij bastarono a regalargli un posto nell’Olimpo dei danzatori di tutti i tempi. Le performance con i Balletti Russi appartengono ormai alla storia di questa antica arte. Ed anche le sue coreografie. Però la fortuna artistica del dio della danza durò, come dicono in Francia, lo spazio d’un mattino. Il suo fragile equilibrio mentale rivelò presto i segni della schizofrenia che a 29 anni lo travolse allontanandolo per sempre dalle scene. Ma proprio sulla soglia della follia – nei primi mesi del 1919, durante un soggiorno in Svizzera – Nijinskij scrisse, o meglio gettò giù una dopo l’altra, le pagine d’un diario febbrile. Nel quale egli metteva a nudo la sua anima con un candore disarmante. In quei giorni egli era tutto concentrato sul tenere la penna in continuo movimento per registrare con attenzione il flusso della sua coscienza. Quello gli premeva, non lo stile. Nacque così Il diario di Nijinskij, che venne rimaneggiato e pubblicato una prima volta dalla moglie nel ’36. Solo da pochi anni esiste un’edizione completa (in Italia pubblicata da Adelphi). Questo diario, oltre ad essere uno struggente documento umano, è un’opera letteraria di pregevolissima fattura. Tanto che di esso Henry Miller scrisse: Se non fosse finito in manicomio, se questo diario fosse stato il suo battesimo con la letteratura, avremmo avuto in Nijinskij uno scrittore paragonabile al ballerino . Sono pagine d’una forza indicibile, anche se travagliate dai sintomi della malattia che lo attanagliava. Spesso sono permeate d’una tensione religiosa morbosa, con deliri di identificazione col divino; ma sono pure ricche di affermazioni lucide e perentorie sull’arte e sugli artisti contemporanei, sulla società, sull’aspirazione alla pace universale. Quasi da profeta moderno. Lo psicologo Jung, che per un periodo lo ebbe in cura, riassunse così la malattia di Nijinskij: L’esperienza che ha vissuto era troppo grande per il suo contenitore. È andato in mille pezzi come un vaso. E i cocci di questa rottura sono le pagine del diario. Un fiume di parole che separa in due la sua vita: su una sponda il ballerino, sull’altra il malato. Vaslav Nijinskij, fin da piccolo conobbe la povertà. Sua madre, danzatrice, abbandonata dal padre, fu costretta a una vita di stenti per mantenere i tre figli. Vaslav cominciò così a studiare e lavorare per alleviare le pene della madre, intraprendendo l’unico mestiere che in famiglia si conosceva: la danza. Egli scese ad ogni compromesso con la vita pur di poter dare un aiuto in casa. È così che giustificò in seguito le sue relazioni omosessuali. Divenne celebre: il suo innato talento trionfò. Fu la star dei Balletti Russi. Poi, il matrimonio con Romola; la nascita della figlia; la rottura traumatica con Djagilev, l’impresario che lo lanciò, e la conseguente espulsione dai Balletti Russi; la pazzia di suo fratello Stanislao che finì i giorni in manicomio; l’esperienza devastante della Prima guerra mondiale. Tutte emozioni che sfiancarono il suo vacillante equilibrio psichico. Egli aveva un temperamento sensibile, appassionato e generoso, ma vulnerabile, da sognatore. E visse in modo tragico il conflitto tra assoluto e relativo. Tanto che nell’introduzione ai Diari sua moglie poté scrivere: Dedicò tutta la sua vita, la sua anima, il suo genio al servizio dell’umanità, con l’intento di nobilitare ed elevare il suo pubblico, di recare al mondo arte, bellezza, gioia. Non si proponeva di divertire o di mietere successi e gloria, ma di trasmettere un messaggio divino attraverso il mezzo espressivo che gli era proprio – la danza. E non poté sfuggire con la sua natura incorporea e sensibile al destino di tutti i grandi spiriti umani – al sacrificio. Pazzia e genialità s’incontrano spesso nella storia dell’arte e della cultura. Molti grandi hanno sofferto di disturbi mentali. Ne sono state vittime Nietzsche, Artaud, Van Gogh, Swedenborg, Holderlin, Strindberg… tanto per citare alcuni nomi illustri. Se la follia, in brevi momenti, apre spiragli incredibili sulla verità ed è capace di intuizioni e istantanee di inaudita sincerità, per la maggior parte del tempo è causa di grande sofferenza. Tutti questi geni hanno sofferto molto e sono riusciti a produrre opere degne di merito nonostante la loro infermità. Spesso, neppure la psichiatria riesce a comprendere i percorsi tortuosi in cui, in questi casi, si va a cacciare l’arte. Resta soltanto il sentimento di condivisione della miseria umana che sgorga in cuore quando qualcuno, attraverso la sua opera, apre uno spiraglio sul proprio dolore. Il filosofo Jasper, che s’è impegnato in ampi studi sulla relazione tra genio e follia, scriveva: Nelle opere dei grandi ammalati sentiamo profondità rivelatrici, dove sono autentiche, ma inimitabili: non sono un modello da seguire. Possono nascondere un richiamo benefico, un’interrogazione, se noi troviamo nelle opere che esse ispiravano, come in tutto ciò che è autentico, uno sguardo sull’assoluto. È così anche per il Diario di Nijinskij. Esso pullula d’affermazioni che paiono un vaneggiamento blasfemo. Io non so perché sono ancora uomo e non Dio scrive nel primo quaderno; per poi affermare al termine del secondo: Dio è in me e io sono in lui. In seguito il ritmo si fa incalzante e si perde nel labirinto della sua psiche disturbata: Sono Dio. Io sono Dio. Io sono Dio. Io sono tutto. Io sono la vita. Io sono l’infinito. Io sarò sempre ed ovunque. Fino a firmarsi: Dio e Nijinskij. Ma queste espressioni, che scaturiscono dal disordine mentale e dal delirio religioso di cui era vittima, sono anche segno d’un desiderio profondo d’unità col divino. Che accomuna tutti gli uomini. E che Nijinskij, attraverso la follia, ha comunicato in maniera tanto disordinata quanto assoluta. I Vangeli riportano una scena drammatica. Alcune persone, convinte che Gesù di Nazareth avesse bestemmiato, si scandalizzarono e cominciarono a raccogliere sassi per lapidarlo. Allora egli, proferendo un’espressione fortissima, ricordò loro il passo d’un antico salmo: Non è forse scritto nella vostra Legge: Io ho detto: voi siete dèi?. Troppo spesso la religiosità accantona il senso forte della somiglianza dell’uomo con Dio, a vantaggio d’una certa umiltà di dubbia sincerità. Più mansueta, più politically correct, si direbbe oggi, ma meno veritiera e ancor meno impegnativa. Quelle di Nijinskij sono le parole d’un malato di mente. Non va dimenticato. Ma, come dice Jasper, possono servire – non per essere imitate – ma come stimolo a riflettere sulla grandezza del nostro destino umano (e sulla sua imprescindibile fragilità). Del resto, Nijinskij era russo. E come ogni russo possedeva in modo innato quel qualcosa di inafferrabile che Evdokimov riassunse così bene: L’uomo russo o è con Dio o contro Dio, mai senza Dio. Nella grandezza, e anche nella pazzia.

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