Il dilemma ricorrente sui taxi
Intervista con l’economista Benedetto Gui su una delle proposte di liberalizzazione dai forti contrasti sociali
Come previsto toccare la questione della liberalizzazione del servizio taxi sta scatenando forti proteste da parte di una categoria che esercita un controllo effettivo del territorio nelle città. La teoria dice che con più taxi in circolazione, aumenta il numero di corse disponibili ad un prezzo accessibile per una fascia di popolazione finora esclusa da questo servizio. In varie città del mondo da Buenos Aires a San Paolo a New York, i prezzi sono decisamente inferiori e più convenienti che da noi. Ma in Italia, ogni taxi vuol dire una licenza acquistata dal lavoratore – piccolo imprenditore – con notevoli sacrifici e che rappresenta un investimento da considerare come una liquidazione per la vecchiaia o la possibilità di assicurare una occupazione per un figlio.
Toccate questi due valori sensibili e forse si comprendono le agitazioni di piazza che ricevono la solidarietà di politici finora collaterali a una categoria che può vantare di aver fortemente influito, per esempio a Roma, nella stessa elezione del sindaco. La situazione è già nota: già nel 2006, le misure previste dal governo Prodi furono fortemente ostacolate dall’Uritaxi, un’associazione fortemente critica sui ragionamenti dei professori. Ora le bozze di riforma del governo Monti hanno reso la situazione esplosiva, come dimostrano le manifestazioni del Circo Massimo. Abbiamo chiesto una valutazione della questione a Benedetto Gui, professore di economia politica nell’Università di Padova.
Professor Gui, esplicitiamo meglio le ragioni di questa protesta?
«Partirei dal valore delle licenze che sono l’indice del fatto che, una volta pagati la benzina e gli altri costi vivi, la professione di tassista oggi rende un extrareddito significativo rispetto alla paga che un lavoratore potrebbe ottenere come dipendente. Valori così elevati, come quelli che sentiamo citare con riferimento alla città di Roma (200 mila euro), dicono che questo extrareddito deve essere, a voler sbagliare per difetto, almeno di seimila euro l’anno. Sono gli stessi tassisti intervistati in questi giorni a dichiarare che tipicamente per acquistare la licenza viene contratto un mutuo. Basti pensare che la rata annua di un mutuo ventennale di soli 100.000 euro al due per cento e ripeto due per cento è di 6.091 euro. Chi ha un po’ di esperienza si rende conto che per convincere una persona di buon senso a fare un investimento del genere l’extra reddito deve essere ben maggiore di quei seimila euro. Ad ogni modo, moltiplichiamoli per gli ottomila taxi di una città come Roma e vengono fuori 48 milioni di euro annui (ma potrebbero essere tranquillamente 80) ».
Quindi un costo che in definitiva è spostato sull’utente ?
«Certo. Se dividiamo quella cifra – tanto per avere un ordine di grandezza – per i 2.700.000 abitanti della capitale, si ottiene una soprattassa che va dai 17 ai 29 euro a testa all’anno (in aggiunta, si intende, a quanto sarebbe giusto che gli utenti pagassero).
È un bel dilemma. Se manteniamo le cose come stanno i clienti continuano a pagare la tassa taxi, e con tutte le altre tasse che ci sono direi proprio che non si sente il bisogno che ci sia anche questa. Ma se distribuiamo nuove licenze a qualche fortunato, i tassisti con il mutuo da pagare per una licenza magari comprata da poco tempo si trovano nei guai. La soluzione ventilata dal governo di distribuire licenze gratuite agli attuali taxista mi sembra equa, perché, unita a tariffe più basse, migliora il servizio per gli utenti e al tempo stesso compensa il tassista del fatto che il valore di ciascuna licenza diminuirebbe».
Ma, così facendo, non si crea un mercato delle licenze che avvantaggia i grandi capitali con il risultato di avere società in grado di comprare un numero elevato di licenze costringere gli attuali lavoratori autonomi a lavorare a cottimo in condizioni peggiori? Questa è, infatti, una delle critiche condivise dalle varie sigle sindacali dei tassisti.
«Personalmente non vedo male un limite al numero di licenze che un soggetto può detenere. Meglio tanti piccoli proprietari indipendenti, magari associati in modo da abbattere alcuni costi, che pochi grandi gruppi con tanti dipendenti.
Un’ultima cosa va detta. Se questa operazione sui taxi si accompagnasse ad un maggior numero di corsie preferenziali per i mezzi pubblici e meno auto private nei centri delle città, l’uso del taxi a tariffe più contenute potrebbe estendersi molto, con soddisfazione degli stessi tassisti. La riforma deve essere generale».