Il dibattito statunitense sull’accountability
Nel 1781 il secondo Congresso statunitense, non senza difficoltà, aveva ratificato gli articoli della Confederazione, che prevedevano l’istituzione di un governo centrale al di sopra dei tredici Stati; i poteri conferiti a tale organo erano, tuttavia, estremamente limitati.
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Nel maggio del 1787 la convenzione interstatale tornò, così, a riunirsi, con l’intento di rivedere il contenuto di quegli articoli e farne una vera e propria Costituzione. È nell’ambito di quell’assemblea, denominata Convenzione di Filadelfia, che si sviluppò il dibattito tra i federalisti e gli antifederalisti, nelle cui file spiccano da una parte personalità del calibro di James Madison e Alexander Hamilton e dall’altra figure importanti come Patrick Henry e Samuel Adams.
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La preoccupazione dei federalisti consisteva, in particolare, nell’evitare che dalla strutturazione di un’autorità debole derivassero ingiustizia, confusione e orribili disordini, ovvero quei mali mortali a causa dei quali i governi popolari hanno finito per perire ovunque. Nel caso in cui, infatti, fosse stata sottovalutata l’importanza determinante degli attributi di stabilità, energia ed efficienza del potere, allora a prevalere sarebbe stata, senza alcun dubbio, la faziosità; i federalisti erano consapevoli del fatto che le cause di quest’ultima non possono essere eliminate, pena il porre fine alla stessa libertà (che fa sì che i cittadini abbiano opinioni differenti e si riuniscano sulla base della comunanza di desideri e sentimenti), ma erano altrettanto convinti che fosse indispensabile limitarne gli effetti nocivi. A questo doveva servire la Costituzione federale, felice compromessotra autonomia dei singoli ed efficacia del governo, almeno agli occhi di Madison e dei suoi sostenitori.
D’altro canto gli antifederalisti temevano che il dar vita a un governo centrale finisse per sottrarre ai cittadini il potere decisionale, dato che esso veniva a esser posto nelle mani di rappresentanti collocati a una distanza decisamente troppo ampia (non solo in senso geografico) rispetto al recente passato. Era inoltre particolarmente sentita anche la preoccupazione relativa agli eventuali abusi di chi avrebbe posseduto, in una simile forma di governo, un’autorità fin troppo estesa; per queste ragioni, essi giunsero a sostenere con un tono molto perentorio che «ridurre i tredici Stati ad un unico governo» avrebbe provocato «l’annullamento delle libertà».
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I due schieramenti, però, non erano in disaccordo su tutto; essi erano, anzi, accomunati dalla convinzione che, affinché i rappresentanti si mantenessero virtuosi, era necessario sottoporli a elezioni e rielezioni frequenti. Tuttavia, se per i federalisti tale necessità, pur ammessa, non doveva giungere a compromettere quella, decisamente più sentita, della stabilità, per i loro avversari l’ordine delle priorità era completamente invertito.
La seconda ragione di contrasto riguardava l’ampiezza dei collegi elettorali. Madison e i suoi sostenitori avevano suggerito che si individuasse un rappresentante ogni 30.000 abitanti, una misura che gli pareva essere molto equilibrata: «allargandotroppo il numero degli elettori» infatti «si farà sì che il rappresentante sia troppo poco al corrente di tutte le piccole situazioni ed interessi locali; mentre riducendolo troppo, avverrà che egli vi sia anche troppo attaccato e poco atto a comprendere le questioni di carattere nazionale ed a prestare per esse la propria opera».
La preoccupazione dei federalisti continuava, evidentemente, a essere rivolta alla fondazione di un ordinamento repubblicano che, pur godendo dei benefici di una democrazia, non avesse però i difetti insiti in essa, ovvero quella mancanza di stabilità e quella confusione cui s’è già fatto accenno (si tenga presente che nelle pagine del Federalista quando si parla di democrazia ci si riferisce alla sua forma diretta).
Bisognava aggiungere a questo un altro dato decisamente molto importante, che si poneva a sostegno dell’individuazione di collegi non troppo ristretti: «dacché ciascun rappresentante sarà scelto da un numero di cittadini che sarà maggiore nella grande che nella piccola repubblica, rimarrà più difficile ai candidati immeritevoli tramare e mettere in pratica le manovre tortuose con cui troppo spesso si effettuano le elezioni». Collegi ampi garantivano, quindi, secondo i federalisti, elezioni più democratiche, nel senso autentico della parola. Per gli antifederalisti questa relativa ai collegi era senza dubbio, fra tutte, la questione più importante: essi, pur non affermando l’esigenza di instaurare una democrazia diretta, erano, però, convinti che nessuna rappresentanza potesse essere autentica senza che in essa si trovasse realizzato il principio della “somiglianza”.
Gli antifederalisti, d’altra parte, accettavano il “principio di distinzione”, secondo il quale sussiste una certa differenza sul piano sociale fra gli eletti e gli elettori, ma temevano che in collegi di così ampie dimensioni tale differenza sarebbe diventata troppo grande; il disaccordo, dunque, era una questione di gradi: «le due parti avevano opinioni diverse su quale fosse la giusta distanza fra i rappresentanti e i rappresentati».
I federalisti ebbero, in quel contesto, la meglio e il risultato fu che la Costituzione da loro pensata venne ratificata da tutti gli Stati che avevano preso parte alla Convenzione, con l’aggiunta di una Bill of Rights (una dichiarazione dei diritti, fortemente voluta anche da Thomas Jefferson) che raccolse i primi dieci emendamenti a quel testo.
Oggi, tuttavia, come sostiene Borowiak, è importante riscoprire la fondatezza degli argomenti degli antifederalisti, per comprendere meglio i difetti delle nostre democrazie e intervenire affinché essi vengano corretti. La distanza tra il governo e i governati, denunciata più di due secoli fa da Henry e da molti altri, è uno dei problemi che stanno alla base dell’attuale crisi della rappresentanza e che attendono di essere risolti.
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Alla vittoria dell’impostazione di Madison e dei suoi, dobbiamo gran parte degli aspetti del sistema istituzionale e politico americano così come oggi lo conosciamo.
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Dal dibattito statunitense che abbiamo analizzato e dall’ordinamento che ne scaturì, ricaviamo, però, come sostiene Pasquino, qualcosa in più del semplice principio di “divisione dei poteri”: è infatti l’idea della “separazione delle istituzioni” a permeare il pensiero di James Madison e, in generale, della maggior parte dei costituenti americani. Quella che abbiamo definito come accountability orizzontale(ovvero un sistema di controllo reciproco, grazie al quale nessuna istituzione risulta dominante e che garantisce, quindi, la democrazia) trova in questo contesto la più compiuta realizzazione per quanto riguarda il sistema americano, è assolutamente corretto parlare di freni e contrappesi che garantiscono non tanto la divisione quanto piuttosto la condivisione dei poteri: questo fa sì che tutte le istituzioni siano rese accountable l’una nei confronti dell’altra.
La forma di accountability che abbiamo scelto di esaminare con particolare attenzione nel corso della nostra trattazione è, però, un’altra: si tratta, infatti, come abbiamo detto più volte, di quei meccanismi verticali di domanda, argomentazione/giustificazione e controllo che regolano il rapporto tra rappresentanti e rappresentati. Il dibattito americano tra federalisti e antifederalisti è illuminante anche a questo proposito. Come sottolinea Borowiak, infatti, la contrapposizione che vi troviamo rappresentata è proprio il frutto dello scontro tra due visioni diverse dell’accountability politica: per i federalisti la finalità di essa è garantire l’efficienza del governo e, dunque, la controllabilità dei risultati più che delle premesse, mentre per gli antifederalisti tali pratiche funzionano soltanto se riescono ad assicurare l’attiva e ampia partecipazione dei cittadini, che non è possibile realizzare quando il governo è troppo distante da loro. In realtà la parola accountability non viene impiegata molto spesso nell’ambito del dibattito che abbiamo descritto, ma il concetto che essa sottende fa da sfondo a ognuna delle posizioni espresse dai due schieramenti: sia che si parli di durata dei mandati, sia che si discuta di ampiezza dei collegi elettorali o di qualità della rappresentanza, il punto è sempre far sì che gli eletti dipendano il più possibile dai loro elettori. Nessuna delle due parti crede che l’accountability abbia come obiettivo la rimozione del gap che sussiste tra governanti e governati, ma entrambe hanno intenzione di intervenire per “regolarlo”, seppure con metodi differenti.
Da Anna Ascani, Accountability, la virtù della politica democratica (Città Nuova, 2014)