Il dialogo è possibile

Dialogare è un arte che richiede delle forti convinzioni di fondo e una solida disciplina interiore. Alcune riflessioni dell'autore, focolarino, che ha vissuto per molti anni in India.
Dialogo

L’altro e il diverso

Il “globale” è ormai entrato a fare parte della nostra vita quotidiana e si presenta in qualsiasi momento. Ci sono situazioni in cui ne siamo coscienti: quando, per esempio, accendiamo la televisione, anche solo per un telegiornale, che porta una tragedia come lo tsunami a casa nostra.

Accaduto in mondi “esotici”, di cui qualche decennio fa leggevamo solo sui libri, non ha significato solo orrore, raccapriccio, ma anche contatto con gente che reagisce alla tragedia con una visione del mondo, della vita e della morte diversa e per noi, spesso, inconcepibile.

In Occidente, nessuno può sentirsi immune da giudizi, verbalizzati o meno, su “quella gente” intervistata: senza dubbio io, noi, non avremmo reagito in quel modo.

Se questo spiega l’ondata universale di aiuti umanitari – senza dubbio la più grande della storia dell’umanità – potrebbe anche chiarire il perchè dell’impossibilità di categorizzare la decisione dell’India di non accettarli per molto tempo e, comunque, di accoglierli solo sotto attento monitoraggio del suo governo.

Ma ci sono anche situazioni in cui l’“altro” ed il “diverso”, lontano da me e da noi, lo incontro senza rendermene conto o magari terribilmente di sorpresa.

È il caso di un amico, colpito da un lutto familiare: dovendosi occupare della tomba della persona cara, è rimasto sbigottito quanto si è sentito dire che avrebbe dovuto aspettare tre mesi, perchè il monumento, grande o piccolo, doveva arrivare dall’India o dalla Cina.

Al di là delle problematiche dell’economia globale e delle sue leggi, non viene spontaneo accettare il fatto che una tomba debba arrivare da un mondo dove spesso i morti si cremano o da una civiltà dove il loro culto è elemento centrale della dimensione spirituale di milioni di persone.

Ho menzionato due esempi, neanche troppo banali, che ci hanno toccato o ci possono toccare di persona, per dire quanto la vita e il quotidiano siano ormai impastati con la dimensione della “globalità”. Lo sono a tal punto che parlare del “villaggio globale” è ormai quasi un luogo comune.

D’altra parte sono esempi che ci rivelano come chi ha una cultura diversa, chi reagisce diversamente da me, resta sempre lontano come se fosse un enigma incomprensibile.

Eppure oggi, forse come mai nella storia dell’uomo, si avverte la necessità irrinunciabile di gettare ponti. Dovunque viviamo, ci rendiamo conto che l’altro, un tempo lontano, è ora alla porta di casa.

Spesso proprio in casa mia. Quanti dei nostri della “terza età” sono aiutati da filippini, indiani, moldavi, rumeni, somali e peruviani. Ognuno ha una sua cultura, la sua lingua, il suo modo di vivere e la sua religione.

Il dialogo diventa imprescindibile per la sopravvivenza, per evitare lo scontro, ma anche per realizzare quello che in fin dei conti ognuno desidera: vivere in armonia, trovare il modo di convivere. 

L’inatteso e sconosciuto

Anche il dialogo, dunque, è diventato ormai parte del linguaggio quotidiano: è necessario affrontare il problema, per evitare in qualche modo quello “scontro di civiltà” di cui Huntington si è fatto portavoce.

Sappiamo bene che non tutti sono d’accordo con una tale affermazione: si vorrebbe passare dall’ineluttabilità dello scontro alla speranza e alla certezza dell’incontro di civiltà.

D’altra parte, possiamo essere d’accordo con un altro commento dello stesso autore, che, mi pare, non ci possa lasciare indifferenti: “Gli uomini sono sempre tentati di dividere l’umanità in ‘noi’ e ‘loro’, l’uguale ed il diverso, la propria civiltà e l’altrui barbarie.”

Penso che la capacità dello storico inglese di leggere nelle pieghe della storia ci accomuna tutti, soprattutto noi europei e occidentali in senso più lato, in un atteggiamento che ci portiamo dietro da millenni.

A contatto con gli “altri”, consapevolmente o inconsapevolmente, restiamo noi gli arbitri del gioco. Lo siamo stati a tal punto da aver deciso cosa sono questi “altri”, cosa dicono o cosa vorrebbero dire.

È successo, per esempio, con quel mondo che sono le religioni dell’India. Non avevano un nome, se non riferito ai loro libri sacri, i Veda, ben più antichi dei libri sacri di tutte le religioni.

Eppure proprio il nostro mondo occidentale ha sentito il dovere, irrinunciabile, di dare un nome, Induismo, a quelle tradizioni. È come se avessimo voluto almeno confezionare dei vestiti per tutto quanto non è come lo pensiamo attraverso le nostre categorie.

È un modo per sentirci sicuri, per sentire che, in fin dei conti, si è al centro del mondo e tutto il resto ruota attorno a me e a noi, tutto è riferito a quel parametro che sono io con il mio modo di pensare, di sentire e anche di amare Dio. Come se io solo o quelli come me potessero reclamare l’unico modo di rapportarsi a Lui, Padre dell’umanità!

Oggi si parla di dialogo a 360 gradi: interculturale, interreligioso, interetnico. Il desiderio è ovviamente quello di arrivare non solo a evitare la catastrofe, ma a costruire la fratellanza universale, a vedere il mondo come una famiglia vera e concreta.

La strada è lunga ed è impressionante vedere quanti siano gli sforzi e le iniziative per gettare ponti, per incontrarci, per capirci: sono ormai patrimonio di un’umanità in cammino verso la fratellanza.

Eppure, è proprio qui che ci incontriamo con l’inatteso. L’apertura al “dialogo” è l’apertura a chi è diverso da me. Jacques Dupuis affermava con una frase terribilmente scomoda che il dialogo è “riconoscere all’altro il diritto alla diversità”.

Il processo non è facile e, se da un lato, porta alla luce della ricchezza, della varietà e della fratellanza, dall’altro, chiede di passare attraverso l’incomprensione, la delusione, l’incognito, lo sconosciuto, il difficile: la notte. 

Dialogo è ascoltare

Il dialogo, proprio il contrario del monologo, richiede, infatti, due atteggiamenti decisivi: l’ascolto e il sapere parlare in modo che l’altro capisca ciò che desidero dire.

Ovviamente per ascoltare, devo tacere e non è semplice. Viene sempre da dire qualcosa, trovare un appunto, chiarire un punto interrogativo o, anche solo, sottolineare quanto abbiamo in comune. Il tacere e il silenzio restano invece una grande testimonianza, a volte, ben più potente della parola.

Ma tacere, lo sappiamo tutti, non è facile, soprattutto quando si sente che ciò che si vorrebbe dire è proprio quanto di più giusto e adatto potrebbe essere pronunciato in quel momento. Il silenzio, allora, diventa una notte dove la luce dell’altro deve brillare e illuminare anche me.

Anni fa, in India sono stato testimone della visita di Chiara Lubich, invitata da alcune organizzazioni indù a ricevere il Premio “Difensore della Pace 2000”.

Scriveva nel suo diario del 30 dicembre 2000:

“Io sono venuta qui per conoscere, stando in silenzio il più possibile: così, mi hanno detto, occorre venire in India. E, infatti, ho occupato quasi l’intera giornata per prendere visione dei documenti preparatici sull’India, sulla Chiesa qui e sull’Opera di Maria, ed a farmi istruire un po’ da focolarini.

Tante cose belle, altre… misteriose, come è sempre stato ed è questo Paese.

Misteriosa soprattutto questa religione!

… c’è pure il senso molto forte dell’uno, dell’Assoluto. E sopra tutte le regole: la tolleranza, l’amore!

Forse c’è posto per il nostro dialogo”.

E il giorno successivo:

“Si sente che siamo di fronte ad uno scrigno di tesori spirituali, di tensione mistica di tutta la natura umana – tensione alla quale non è certamente estranea l’opera della Grazia. E questo scrigno si apre solo a chi gli si accosta con rispetto pieno d’amore e, soprattutto, con la convinzione che Dio ha tanto da dirci attraverso questa cultura millenaria.

Essa, nel difficile e tormentato mondo contemporaneo ha, infatti, una sua parola, essenziale e vitale per tutti: una parola che mette in forte evidenza il primato della vita interiore”.

Un atteggiamento di silenzio che ha prodotto risultati inattesi e sviluppi che non si potevano immaginare.

Qualche giorno dopo, al silenzio di Chiara, diventato parola rispettosa e discreta di fronte a 600 indù della città di Coimbatore, si rivolse un leader Gandhiano, già Rettor Magnifico di una Istituzione Universitaria della zona. Le chiese di “iniziare un dialogo fra indù e cristiani”.

Nessuno poteva prevedere quanto è accaduto in questi sette anni: iniziative accademiche, collaborazioni per la promozione sociale di villaggi, per la formazione alla pace dei giovani.

Ma non è tutto, anzi. 

Dialogo è parlare

Dialogo, infatti, significa anche parlare e, anche questo, non sempre è facile. Non si tratta, infatti, di dire, ma di dire ciò che il mio interlocutore ha bisogno di ascoltare, ciò che aiuta entrambi a diventare più fratelli e meno sconosciuti l’uno all’altro.

Si tratta di scegliere la parola giusta, dirla in modo che possa essere compresa, almeno inizialmente, sottolineando ciò che ci accomuna, ben sapendo che ci sono molte differenze che ci potrebbero separare o, anche solo, ferire.

Anche qui si sperimenta il buio: devo, infatti, dimenticarmi di come ragiono io, per pensare alla sensibilità e alla prospettiva dell’altro. Si tratta di uscire dalla mia terra, che conosco, nella quale mi sento a casa, dove ho punti di riferimento costante e muovermi a tentoni, brancolando per trovare un aggancio, la parola adatta e il tono giusto per pronunciarla.

È una purificazione della memoria e del linguaggio, come ha osato dire qualcuno. Certo anche del linguaggio! Anche questo fa parte del cammino nella “notte” alla ricerca della purificazione che permetta di arrivare al cuore del mio interlocutore.

Roberto De Nobili, il grande gesuita apostolo del metodo dell’“adattamento” nell’evangelizzazione dell’India del XVII secolo, precursore della inculturazione, scriveva alla cugina quanto avesse imparato da quello che si diceva di san Tommaso, l’apostolo che la tradizione vuole abbia evangelizzato l’India: “la soave persuasione, più della violenza, è capace di produrre cambiamento”.

Fu anche questo che ispirò De Nobili nel suo rapporto con i brahmini indù del sud dell’India: “penetrare il loro cuore e conquistare i loro spiriti con la stima e l’affetto”. Per anni, “la sua versione del Cristianesimo era veramente sintonizzata sugli aspetti del contesto indiano” riconosce oggi Michel Amaladass, gesuita e studioso di quella esperienza. 

Rispettoso annuncio

È questa un’esperienza possibile anche oggi. Mi rifaccio ancora a quel viaggio di Chiara Lubich che, parlando con i vescovi di rito latino dell’India e raccontando dei primi contatti avuti con l’Induismo, diceva fra l’altro:

“Naturalmente per farmi capire, vicino a certe nostre frasi del Vangelo mettevo delle frasi simili dell’induismo, che abbiamo trovato e che sono molto belle. Per esempio, quella sull’amore al nemico: ‘La scure taglia il legno di sandalo, mentre questo le fa dono della sua virtù, rendendola profumata’1.

Così ho visto che anche loro hanno delle frasi bellissime su Dio amore. Avranno un altro concetto di Dio, ma comunque dicono anche loro che Dio è amore. E così anche sull’amore del prossimo io ho citato quella frase di Gandhi: ‘Io e te siamo uno. Come posso pensare di ferirti senza ferire me stesso?’”. 

È quanto Paolo VI e Giovanni Paolo II hanno spesso richiamato con l’invito al “rispettoso annuncio”.

Già san Paolo l’aveva insegnato, sin dai tempi in cui era passato ad Atene. Non doveva essere stato facile per uno come lui vedere quanto aveva visto in giro: “… fremeva nel suo spirito al vedere la città piena di idoli” (At 17, 16).

Eppure, quel giorno all’Aeropago esordì, complimentandosi con gli Ateniesi: “… vedo che in tutto siete molto timorati degli dei. Passando, infatti, e osservando i monumenti del vostro culto ho trovato anche un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto” (At 17, 22-23). Chissà quanto gli costò un tale approccio: anche quella fu una notte. 

Come sospeso

Ma c’è un ultimo aspetto del dialogo che richiede la purificazione non solo del linguaggio, ma della mente e della memoria.

Anni fa, per motivi professionali, assistetti a un dibattito fra un gruppo di giornalisti indiani e italiani: rappresentavano le maggiori testate dei rispettivi paesi. Discussero per due ore su varie problematiche del momento. Fui testimone in diretta di un processo incredibile.

Le parole partivano pensate da una mente e pronunciate da una bocca con un certo significato e arrivavano dall’altra parte del tavolo dove venivano raccolte da orecchie e trasmesse a un’altra mente nella quale il significato era assai diverso da quello di partenza.

Tutta la tavola rotonda si giocò su questo frainteso, coronato al termine, dalla reciproca e radicata convinzione che ognuno aveva capito l’altro. Niente di più chimerico!

Questo è spesso il vero dramma. Si dialoga, ma non ci si capisce. L’idea che ho di Dio non è quella del mio interlocutore e viceversa. E quindi anche la mia visione della religione o di quello in cui crediamo. Le parole possono essere le stesse, ma il senso e l’esperienza che nascondono sono profondamente diverse.

Ecco allora un altro aspetto della “notte” che il dialogo richiede e che rappresenta un passo decisivo. Devo riconoscere che non so e quindi occorre che dimentichi ciò che penso, che cerchi di capire quanto l’altro veramente vuole dire.

È necessario entrare nella sua esperienza, cercare di pensare, ed è impossibile, io cristiano come pensa lui buddista, mussulmano o induista.

Anche qui entro nel buio della “notte”. È un po’ un ritorno a quel “sapere di non sapere” che Socrate andava ripetendo per le strade di Atene. Quanta sapienza!

E i primi Padri, soprattutto Giustino e Clemente Alessandrino lo avevano riconosciuto se dicevano che “potrebbe darsi [che] la filosofia sia stata data ai greci quale bene primario, avanti che il Signore li chiamasse, poiché essa educava la grecità a Cristo come la Legge gli Ebrei”2.

Ma chi vuole far da ponte, non può evitare momenti in cui si rende conto di non appartenere più né al suo mondo né a quello dell’interlocutore. L’ho sperimentato molte volte, ma particolarmente dolorosa è stata la situazione di alcuni mesi fa.

Una persona cara, per convincermi di qualcosa che riteneva improrogabile, ma di cui non vedevo la necessità, riferendosi alla mia vita quasi trentennale in Asia, sancì il suo argomentare con un: “non siamo mica in India qui!”.

Fu come se qualcuno avesse dato un colpo d’accetta netto alle mie radici. Mi resi conto di quanto fossi ancora radicato nel mio essere europeo e, allo stesso tempo, troppo e ingiustamente fiero del mio cercare di essere ponte fra culture e religioni. Mi ritrovai perso e lo restai per giorni.

Fu, e resta, un momento di notte fonda!

Mi venne in mente quell’essere “rifiutato da cielo e terra” che fece di Gesù in croce e nell’esperienza dell’abbandono il ponte fra l’uomo e Dio.

È Lui il modello del dialogo: insuperabile, certo, ma imitabile, perchè passato in una notte squarciata da un grido: “Perchè?”. Non ebbe una risposta: il Padre tacque! Fu lui a continuare: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”.

Penso che questo sia il segreto del “dialogo”, forse l’unica via possibile al di là della “notte”, verso la fratellanza universale.

 

NOTE

1 Ramacaritamanasa, Uttara-kanda, 36,4.

2 Clemente Alessandrino, Stromata I, 5,3.

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