Il dialogo è finito?
Il dialogo è finito? È il titolo di un testo di Brunetto Salvarani uscito nel 2011 per i tipi del Centro Editoriale Dehoniano (EDB). Mi è capitato fra le mani nuovamente, per caso, oggi. Stavo pensando a questo pezzo che mi era stato chiesto: un bilancio sul dialogo nell’anno che si chiude. Ho avuto la tentazione di lasciarmi portare da questo titolo intrigante. Certo! La domanda fa pensare a chi ha creduto alla possibilità del dialogo e, da anni, sta lavorando al suo cammino lento, ma progressivo.
Guardando al 2015, da Charlie Hebdo alle tragiche settimane di novembre con le stragi del volo russo sul Sinai, di Beirut, di Parigi, di Bomako e di tante troppo altre vite bruciate in attacchi e guerre (Siria, Centro Africa, Yemen, Ukraina ecc. ecc.), spesso in nome di un Dio piuttosto fantomatico, verrebbe proprio da dire che sì, il dialogo non è più una possibilità. Eppure, la mia esperienza di quest’anno mi fa dire esattamente il contrario. Dai giorni immediatamente successivi all’attacco al settimanale satirico francese, sono piovuti inviti a parlare di quanto sta accadendo nel mondo. Mai come quest’anno mi sono trovato da solo o con altri a interloquire sulla possibilità del dialogo con ragazzi, giovani, adulti, professionisti, consacrati, gente impegnata in parrocchia e nelle diocesi, scettici ed agnostici, seminaristi, in diverse parti dell’Italia, in Ucraina, in Vietnam ed in Thailandia, nelle Filippine, in Svizzera, negli USA. Nel caos generale, nella più bieca strategia della paura lanciata da una guerra asimmetrica abilmente giostrata non solo a livello militare, ma anche mediatico, le decine, centinaia di persone che ho incontrato volevano sapere cosa fare, come fare e, soprattutto, come continuare a sperare. Ecco, qui è intervenuto ancora il dialogo, l’unica possibilità che ci resta per poter vedere un futuro ancora possibile.
Un anno difficile, quindi, ma anche un momento, come mi diceva un amico imam italiano, di origine palestinese, il giorno dopo l’attacco di Parigi a novembre, in cui «ora più che mai dobbiamo dimostrare che il dialogo è possibile». Oggi si parla di terrorismo, ma soprattutto di fondamentalismo, o come sarebbe più giusto dire, di ‘fondamentalismi’. Ciò di cui forse non ci siamo ancora resi conto, soprattutto noi occidentali, è che, nonostante i processi di secolarizzazione, la religione è sempre più di moda, è tornata a far parte delle nostre vite, nel bene e nel male. Ma quale religione, e Dio, c’entra davvero con questa religione?
Il libretto di Salvarani che ho citato in apertura si inaugura con una bellissima storia di Amoz Oz, una di quelle storie che solo gli ebrei sanno raccontare e che nascondo una grande ricchezza di insegnamenti. Racconta di una persona, seduta ad un caffè di Gerusalemme che si trova accanto un anziano signore: Dio in persona. A Lui rivolge una domanda pressante: “Caro Dio, una volta per tutte, per favore, dimmi chi possiede la vera fede? I cattolici o i protestanti o forse gli ebrei o magari i musulmani? Chi possiede la vera fede?” Allora, dice Oz, Dio risponde: “A dirti la verità, figlio mio, non sono religioso, non lo sono mai stato, la religione nemmeno mi interessa.”
Nella tragica negazione finale, la storia ci insegna che nessuno in nome della sua religione può affermare di possedere Dio, la Verità. È la Verità che ci possiede, dice Benedetto XVI. Per questo la vera religione non è mai assoluta. Ci spinge a camminare con gli altri che credono diversamente da noi per arrivare insieme alla Verità. Qui sta il dialogo, come possibilità della nostra speranza anche alla fine del 2015.
Tutto questo è emerso anche in un anniversario celebrato in molti angoli del mondo, ma sfuggito ai più e all’opinione pubblica in generale, perché troppo presa dalle tragedie e dalle paure geopolitiche. Il 28 ottobre 1965 i padri del Concilio Vaticano II avevano pubblicato il più breve dei loro documenti, ma, forse, quello che aveva richiesto più tempo per arrivare ad una redazione condivisa, Nostra Aetate. A cinquant’anni di distanza quelle quattro pagine ci insegnano che «nel nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce l'interdipendenza tra i vari popoli, (…) i vari popoli costituiscono una sola comunità. Essi hanno una sola origine, poiché Dio ha fatto abitare l'intero genere umano su tutta la faccia della terra hanno anche un solo fine ultimo, Dio». Questo è il Dio della vera religione che non esclude nessuno e che ci fa camminare insieme verso la Verità.
Ce lo insegna papa Francesco con il suo pellegrinare in Paesi toccati da guerre, terrorismo, fondamentalismi. Dovunque, Francesco si è fatto apostolo di dialogo e ha invitato tutti ad un «dialogo aperto e rispettoso che si rivela fruttuoso. Il rispetto reciproco è condizione e, nello stesso tempo, fine del dialogo interreligioso: rispettare il diritto altrui alla vita, all’integrità fisica, alle libertà fondamentali, cioè libertà di coscienza, di pensiero, di espressione e di religione». Francesco lo chiama dialogo dell’amicizia che ci aiuta ad “alzare lo sguardo per andare oltre”. Infatti, ha affermato in diversi toni, «il dialogo basato sul fiducioso rispetto può portare semi di bene che a loro volta diventano germogli di amicizia e di collaborazione in tanti campi, e soprattutto nel servizio ai poveri, ai piccoli, agli anziani, nell’accoglienza dei migranti, nell’attenzione a chi è escluso».
Il dialogo, quindi, non è finito. Prendiamo l’augurio fatto da papa Bergoglio a quattrocentocinquanta musulmani e cristiani che il 13 dicembre in piazza San Pietro hanno vissuto un momento di fraternità come ‘costruttori di pace, insieme’. «Andate avanti! Andate avanti con coraggio nel vostro percorso di dialogo e di fraternità, perché tutti siamo figli di Dio!».