Il destino dell’Italia nel caso Fiat

Non sono in gioco solo i posti di lavoro. Una storia industriale da rivedere con lo sguardo al futuro.
Presidio a Roma dei lavoratori dello stabilimento Fiat chiuso in Sicilia

Un breve comunicato congiunto dopo cinque ore di serrato confronto tra i vertici Fiat e il governo “tecnico” italiano. Come avviene tra due Stati indipendenti e sovrani. Nell’incontro di sabato 22 settembre 2012, la multinazionale dell’auto ha affermato che vuole «riorientare il proprio modello di business in Italia in una logica che privilegi l’export, in particolare extra-europeo». Investirà in nuovi prodotti in Italia per intercettare la ripresa solo quando sarà il «momento idoneo», senza indicare date precise. Nessun accenno al progetto “Fabbrica Italia” con i suoi 20 miliardi di euro previsti destinati a raggiungere, nel 2014, l’obiettivo di produrre un milione e 400 mila auto nel Bel Paese contro le 650 mila del 2009. In compenso i numeri della Chrysler sono positivi così come i guadagni di Exor spa, la società che controlla Fiat auto e Fiat industrial.  
Focus2move, il centro di ricerche più accreditato nel settore, nei primi sei mesi del 2012, ha registrato nel mondo la vendita di 40,5 milioni, tra autovetture e veicoli leggeri, con un incremento del 6,7 per cento rispetto ai primi sei mesi del 2011. Trainate dai mercati emergenti, i numeri raddoppieranno nel 2030, afferma Ferdinand Dudenhöffer, direttore del Center automotive research tedesco.
 
La Fiat, già nel 2010, nel pieno della crisi economica, prevedeva di dover esportare gran parte della produzione italiana all’estero. Nel frattempo, i consumi interni hanno raggiunto, secondo Confcommercio, i livelli più bassi dal dopoguerra, mentre l’alternativa secca posta dall’azienda tra l’accettazione di determinate regole in fabbrica e la chiusura degli stabilimenti, ha prodotto una spaccatura profonda tra i sindacati. La multinazionale, uscita da Confindustria, ha premuto per far approvare una norma, l’articolo 8 della manovra finanziaria del 2011, che legittima il prevalere degli accordi aziendali sul contratto collettivo. Insomma, un vero e proprio terremoto, che si associa al trauma sociale della chiusura degli stabilimenti di Termini Imerese in Sicilia (auto), nell’Irpinia (autobus) e ad Imola (macchine agricole). A Pomigliano d’Arco, Napoli, oltre metà dei cinquemila dipendenti si trova in cassa integrazione. 
Resta l’obiettivo, dichiarato indispensabile per sopravvivere, di raggiungere i sei milioni di vetture prodotte all’anno dal gruppo Fiat-Chrysler. Dove e come si faranno? Secondo Franco Pirro, del centro studi di Confindustria Puglia, con adeguati incentivi mirati tra Stato e regioni si potrebbe far partire un mega distretto dell’auto ecologica nel Meridione dove sono presenti centri di ricerca e fornitori efficienti. Ma il segretario generale della Fiom, Landini, segnala che i dipendenti dei settori ricerca e sviluppo degli enti centrali di Torino sono tutti in cassa integrazione, mentre progetti e tecnologie si trovano ormai a Detroit, nella sede centrale della Chrysler.  Giuseppe Berta, storico della Bocconi, che studia la Fiat da decenni, registra «una proiezione internazionale dell’azienda non più in sintonia con l’Italia». Marchionne ha rassicurato, invece, i suoi seimila quadri e impiegati invitandoli a considerarsi parte di una sola «azienda forte e sana», la Fiat-Chrysler, temprata dall’aver scampato la «condanna a morte» del fallimento.
 
Cisl e Uil ritengono di avere il merito di aver trattenuto in Italia la Fiat con gli accordi stipulati per il progetto “Fabbrica Italia” e pretendono un rapporto diretto con l’azienda. Resta da seguire la strategia del governo italiano. Il presidente Monti ha tenuto a precisare che «non spetta ai governi indicare alle imprese dove e come investire». Nel frattempo la Volkswagen ha già acquisito il controllo di Ducati, Giugiaro e Lamborghini e mostra interesse per l’Alfa Romeo, «l’auto davanti alla quale Henry Ford si toglieva il cappello».
Qualcosa si muove, eppure c’è chi come Stefano Biondi, sindacalista Cisl del gruppo di lavoro internazionale di Terra Futura, invita ad alzare lo sguardo e quindi a «tener presente che l’auto fa parte di un risiko mondiale dei grandi giocatori del mercato per conquistare il pianeta senza fare i conti con la questione ambientale. Prima o poi il meccanismo si romperà senza un’alternativa di produzione. Lasceremo solo il deserto economico e sociale con costi di bonifica insostenibili».
Il caso Fiat, dunque, non vuol dire solo contabilizzare gli aiuti concessi dallo Stato al gruppo controllato dalla famiglia Agnelli in più di un secolo di vita, ma impone di rimettere in discussione l’intera storia industriale, economica e culturale italiana. Non è cosa per pochi addetti ai lavori.

Carlo Cefaloni

 
Un mercato da disintossicare
 
Quando il tossicodipendente arriva allo stadio in cui per forza deve disintossicarsi, sa che deve affrontare le crisi di astinenza, che solo in parte possono essere attenuate da farmaci come il metadone: così, dopo decenni di droga di credito e debiti facili, adesso il mondo occidentale è obbligato a disintossicarsi e deve affrontare la crisi di astinenza dai consumi, che in precedenza venivano finanziati indebitandosi sempre più.
Crisi che sta colpendo fortemente il settore dell'auto: dopo un paio d'anni in cui si è cercato di attenuarla con il metadone degli incentivi al rinnovo del parco macchine, adesso si deve ammettere che il nostro mercato delle auto è saturo: al massimo si potranno produrre le vetture necessarie a sostituire quelle circolanti. E anche se un domani l'economia si riprendesse, il mercato delle auto azionate a combustibile fossile sarebbe comunque condizionato dal costo della benzina, dovuto all'aumento del prezzo del petrolio, a sua volta provocato dall'aver raggiunto limiti di produzione mondiale difficilmente superabili.
Occorre quindi abbandonare la speranza delle future maggiori produzioni prospettate da Fiat nel piano “Fabbrica Italia”, anche se allora Marchionne in parte pensava ad esportazioni, perché nel frattempo i Paesi che ancora hanno uno spazio di espansione del parco macchine, come il Brasile, offrono nelle aree meno sviluppate, come nello Stato del Pernambuco nel Nord Est, incentivi finanziari e fiscali per utilizzare queste nuove produzioni per incentivarne lo sviluppo.
Questo è quanto più o meno tra le righe oggi mi sembra voglia far capire Marchionne. A mio parere, allo Stato italiano non conviene a questo punto investire risorse pubbliche, invero non richieste dalla Fiat come sostiene Monti, per espandere la produzione in Italia in un settore maturo, senza avere la certezza che siano disponibili nuovi modelli. Di certo non i Suv a gasolio o benzina, ma quelle vetture ibride ed elettriche che, secondo i piani di sviluppo della Comunità europea, dovranno essere le protagoniste dei prossimi 40 anni. Vetture che oggi non producono solo le case giapponesi, ma anche varie aziende automobilistiche europee. E la Fiat?

Alberto Ferrucci

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