Il delitto Mattarella
È quasi un film corale, Il delitto Mattarella, uscito al cinema il 2 luglio, diretto da Aurelio Grimaldi, nell’anno in cui ricorrono i quarant’anni dall’uccisione del politico siciliano – allievo di Aldo Moro – che voleva una Sicilia (e una politica, e quindi una società), “con le carte in regola”. Perciò più libera, forte, vogliosa di crescere, più aperta al futuro, più attenta ai bisogni dei cittadini e meno vittima degli artigli affilati di pochi individui capaci di strappare dalle casse dello Stato buona parte del bene necessario alla collettività.
È un film quasi corale, Il delitto Mattarella, perché attorno al protagonista si muovono tanti personaggi noti di quel tempo doloroso, oscuro, per l’isola e per l’Italia tutta. Tutti interpretati da attori molto bravi. C’è l’altra Dc siciliana: quella di Salvo Lima, di Rosario Nicoletti, di Giovanni Gioia e di Mario D’Acquisto, oltrechè di Vito Ciancimino. E poi c’è Giulio Andreotti, c’è per un attimo il ministro Rognoni, c’è Michele Sindona e si cita Pertini, che stimava Mattarella, lo difendeva. E ci sono i boss mafiosi Rosario Spatola, Stefano Bontate e Totò Riina. E ancora Giovanni Falcone, Pio La Torre, Pietro Grasso, Rocco Chinnici e Gaetano Costa, anche se di questi ultimi appare solo una didascalia alla fine del film. Ma importante, fondamentale, come del resto tutto il lavoro di Grimaldi è fatto di penellate brevi, asciutte, semplici ma non banali, che arrivano fino all’estrema destra di allora, siciliana e non solo, e persino alla banda della magliana. Ci sono i famigliari di Piersanti Mattarella: suo fratello Sergio, oggi presidente della Repubblica, i suoi due figli e sua moglie Irma, che riconobbe quell’assassino mai accertato che sparò all’allora Presidente della Regione Siciliana mentre andava a messa, come tutte le domeniche, quel 6 gennaio del 1980, giorno dell’Epifania. E lo faceva senza scorta, perché, nonostante le minacce ricevute, voleva che i poveri poliziotti che lo proteggevano se ne stessero a casa, con le loro famiglie, almeno nei giorni di festa.
Ci sono talmente tante cose e personaggi, dentro questo film stile anni Settanta, inteso come cinema d’inchiesta, di storia, di denuncia e di memoria, alla Rosi, alla Petri, che ad elencarle tutte può apparire sovrabbondante di rami: un ingorgo di nomi, un dedalo di trame dentro il quale perdersi. In realtà non è così, perché si avverte chiaramente uno studio approfondito dell’autore sulla materia, che se da una parte ricostruisce un quadro complesso, intricato, dall’altra lo riempie in modo ordinato, con i tempi, le congiunzioni e i colori giusti. Ci sono i nomi autentici dove le sentenze hanno portato a una verità giudiziaria, e nomi fittizi dove, pur esistendo indizi, la legge italiana non ha fatto piena luce.
È un film quasi corale, Il delitto Mattarella, perché i personaggi di contorno, a volte disegnati con una venatura di grottesco, altre volte no, hanno una buona compiutezza e, nel contrasto o nell’assonanza con Piersanti Mattarella, contribuiscono alla sua descrizione. Di questo importante – e poco raccontato – personaggio italiano, viene mostrato quanto serve, quanto basta: il suo rigore, la sua fermezza, la sua normalità, la sobria bellezza. C’è un elemento, poi, che torna, un fatto attraverso il quale i personaggi reagiscono, un evento, o meglio ancora un progetto nefasto, un disegno criminale, che racconta bene l’obiettivo di Mattarella e l’ambiente nel quale tentò di muoversi e di agire: saltò fuori, nei mesi precedenti all’assassinio, che l’appalto per costruire sei scuole a Palermo, aveva avuto sei candidature in tutto: solo sei società, una per scuola, tutte di San Giuseppe Jato, tutte perciò vincitrici e tutte con titolari prestanome dai quali si poteva risalire al mafioso Rosario Spatola.
Mattarella si oppose a tale scempio, a questo rapporto estremamente stridente, inaccettabile, tra mafia e formazione, e volle fare luce sui fatti. Interrogó colleghi, personaggi coinvolti, al fine di capire come fosse possibile una stortura del genere. Lo stesso fa Falcone, nel film di Grimaldi, quando interroga il successore di Mattarella, Mario D’Acquisto, le cui parole, le cui espressioni ribadiscono il grande vuoto lasciato da quel presidente innamorato della legalità e del futuro. Un esempio dimenticato, non difeso a dovere, del quale, ricorda la didascalia finale del film, in molte città importanti italiane, non esiste una via dedicata a questo politico che se non fosse stato ucciso, ancora molto giovane, avrebbe certamente portato buoni frutti al Paese intero. Per questo è importante il lavoro di Grimaldi, che ha rifiutato di uscire in piattaforma perché in questo momento le sale hanno bisogno di film, secondo il regista, e perchè un film di tanto di impegno civile, di luce doverosa su un angolo troppo poco illuminato di storia italiana, doveva uscire per forza sul grande schermo.