Il Delirio delle Città
Che destino hanno le nostre città? Chi si sentisse provocato da questa domanda e interessato a farsi un’opinione sulla situazione attuale nel mondo delle grandi metropoli esistenti non perda l’appuntamento con la Decima Biennale di Architettura di Venezia, allestita, con poche novità, negli antichi spazi delle corderie all’Arsenale e nei Giardini di Castello dal 10 settembre al 19 novembre. È una Biennale diversa dalle precedenti, da leggere oltre che da vedere, con meno, ma pur sempre presenti, sorprese scenografiche nell’allestimento. Città, Architettura e Società è il titolo scelto dal direttore, il britannico Richard Burdett che organizza nei corridoi delle corderie un défilé di 16 megalopoli: San Paolo, Caracas, Bogotà, Città del Messico, Los Angeles, New York, Il Cairo, Johannesburg, Istanbul, Berlino, Londra, Barcellona, Tokyo, Mumbai, Milano e Torino, Shangai. Gigantografie aeree mozzafiato, bellissime fotografie urbane che restituiscono una visione immediata, come la gigantesca fotografia di Shangai esposta ai Giardini di Olivo Barbieri; ma anche cifre, percentuali e statistiche che analizzano la crescita demografica, l’andamento del pil, la densità di occupazione del suolo ed altro. Dal confronto di questi dati, ogni metropoli appare come un territorio di crisi e di sperimentazione in cui si pongono problemi di sostenibilità ambientale, di densità abitativa, di trasporti, di confini, di emarginazione e di criminalità. Strategie vengono messe in atto per riconvertire spazi inutilizzati a Londra, città a bassa densità che si propone di crescere in maniera sostenibile, anche attraverso uno sfruttamento maggiore dei mezzi di trasporto pubblici. Barcellona città compatta che con i suoi interessanti interventi urbani è un esempio di progettazione rivolta agli spazi pubblici che hanno migliorato la qualità della vita. Una congestione urbana difficile da gestire è sicuramente quella che riguarda la città di Tokyo, una vera megalopoli, dal tessuto urbano ininterrotto, ad altissima densità, con angusti e alti palazzi costruiti uno attaccato all’altro è forse l’esempio – insieme a Città del Messico, Mumbai, Shangai e Los Angeles – della difficoltà oggi di stabilire confini urbani. Quella che nel Medioevo era facile considerare città perché racchiusa dalle mura difensive e quindi ben distinta dalla campagna circostante, oggi è molto difficile da identificare; si parla di città diffuse, pulviscolari, capaci di espandersi ininterrottamente inglobando le città attorno, creando così una rete che investe tutto il paesaggio. Non c’è da spaventarsi: questa situazione è già sotto i nostri occhi, è presente nell’attuale paesaggio delle periferie italiane. Le città di Torino e Milano presentate assieme non a caso, ma perché considerate – e più volte è stato ribadito anche da Massimiliano Fuksas in una conferenza – come facenti parte di un’unica banda urbanizzata che, protetta a nord dalle Alpi, attraversa la pianura padana e si spinge fino a Trieste, sono un esempio. La risposta più concreta, e pertanto coraggiosa, arriva quest’anno dal nuovo padiglione italiano realizzato all’Arsenale dallo stesso autore, Franco Purini, della città lineare qui esposta, progettata con la collaborazione di studi di architettura e artisti. Si chiama Vema e si sviluppa tra Verona e Mantova: situata al crocevia di due assi europei Lisbona-Kiev e Berlino-Palermo, è un progetto utopico, situato in un futuro neanche tanto lontano, il 2026. Rappresenta il tentativo da parte di una grande personalità dell’architettura italiana di riflettere e riaprire il discorso sul disegno urbano a grande scala, con un atteggiamento umile e disincantato, consapevole che nella storia più volte tentativi totalitaristici simili sono falliti. Tornando alla domanda iniziale, ritengo fondamentale, per avvicinarci ad immaginare un futuro per le città, prendere coscienza di che cosa sia per noi una città, se bastano dei muri di recinzione, delle palazzine e dalle strade a definirla tale, oppure è tutto un insieme di eventi, la compresenza di diversità, la congestione e la creatività collettiva che ne deriva a dare la forma a una città. La forma della città è l’esperienza quotidiana che in essa si vive. Pur essendo predeterminata, la città in fondo è il luogo in cui ricerchiamo la casualità, l’indeterminatezza, la spontaneità. La sfida futura delle megalopoli sarà quella di recuperare un carattere ludico che ci porti di nuovo a sentire la città come un territorio nostro aperto alla sperimentazione sensoriale, e non un luogo da cui proteggersi e da attraversare in fretta, per rinchiuderci poi nelle nostre case. Considerando le complessità delle metropoli e delle società contemporanee che questa mostra illustra, dai problemi energetici ed ambientali a quelli di integrazione sociale nonché ai continui mutamenti dei costumi e dell’abitare, la città può essere affidata ancora soltanto ad un’équipe di architetti e tecnici pronti a disegnare e determinare di conseguenza con il proprio progetto il suo destino?