Il Ddl sicurezza tra nuovi reati e inasprimenti di pena

Alcune prime osservazioni di carattere generale sul Disegno di legge 1660 proposto dal Governo che contiene nuove "disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario"
Manifestazione con bloco stradale ANSA/TINO ROMANO

Come è noto la Camera dei Deputati ha approvato lo scorso 18 settembre 2024 il testo del Disegno di legge sulla Sicurezza (DDL n.1660), che modifica ed introduce fra l’altro nuove figure di reato, dal reato di blocco stradale o ferroviario attuato con il proprio corpo, alle norme cosiddette “anti-Ponte”, “anti-Tav” e “anti-Gandhi”, nonché modifiche in materia di stupefacenti, Codice della Strada e terrorismo.

Un primo sguardo non può prescindere dalla realtà, nella quale oggi svariate forme di violenza e aggressività fisica e verbale generano un clima di illegalità diffusa. Difficile il dialogo, impensabile l’ascolto se l’altro diventa l’antagonista da contrastare.

Eppure, la libertà è un richiamo costante, mentre la stessa Costituzione ne ammette i limiti nei casi e nei modi previsti dalla legge (art. 13). La sua tutela è in apertura della parte I, dedicata ai “Diritti e Doveri dei cittadini”, costituzionalmente definiti Rapporti civili, nella inevitabile correlazione diritti-obblighi.

Analogamente nell’art. 21 Cost., che garantisce la libertà di manifestazione del pensiero, è prevista la possibilità dell’intervento della legge, a sottolineare che ogni diritto è tale ma non nella misura dell’arbitrio.

Perciò, in luogo di una pretesa affrancata da qualunque debito di riconoscimento verso l’altro, la Costituzione indica il bilanciamento con i diritti altrui e gli interessi della collettività. La stessa Corte costituzionale ha sottolineato di recente che non può esservi un diritto “tiranno” rispetto agli altri, e se ne richiede piuttosto un equo bilanciamento.

Nessuno, del resto, vive in un vuoto assoluto, anzi la Costituzione guarda alla convivenza attraverso le molteplici relazioni. Anche l’art. 17 Cost. garantisce il diritto di riunirsi pacificamente, ma se questo avviene in un luogo pubblico, quindi fruibile da tutti, delle riunioni deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle per comprovati motivi di sicurezza o incolumità pubblica.

In questi giorni, la novità normativa che fa più discutere è senza dubbio quella che ha introdotto il cosiddetto “reato di blocco stradale”, modificando l’articolo 1-bis del Decreto legislativo 22 gennaio 1948, n. 66, relativo all’impedimento della libera circolazione su strada, non più punito come illecito amministrativo, ma con la pena (peraltro ‘simbolica’) della reclusione fino a un mese o la multa fino a 300 euro. Se, dunque, il Senato approverà il testo, chiunque impedirà la libera circolazione su strada ordinaria o su ferrovia, ostruendo la stessa con il proprio corpo, commetterà un reato. Se poi a protestare saranno “più persone riunite”, la pena salirà da sei mesi a due anni di reclusione.

In realtà l’inasprimento era stato già introdotto dal precedente governo Conte (2018), che aveva inserito il reato di blocco della circolazione attuato con qualsiasi mezzo (ma non con il corpo). Oggi, la nuova previsione richiama la necessità di bilanciare l’esigenza di salvaguardare la libertà di circolazione e la piena attuazione del diritto di manifestare il proprio pensiero.

Prevedere un reato significa dare rilievo a una particolare “modalità di lesione”, perché ciò che costituisce l’offesa penalmente rilevante è la condotta che integra un danno o un pericolo. In questo caso, l’illecito sta nell’ostacolo alla libertà di circolazione assicurata dall’art. 16 Cost. a ogni cittadino – salvo le limitazioni di legge.

Manifestare liberamente e pacificamente le proprie convinzioni o il proprio dissenso è un sacrosanto diritto, ma, prendendo a prestito le parole di Aldo Moro, libertà responsabile è anche riconoscimento dell’altro nella sua autonomia.

Guardare le cose dal punto di vista dell’altro fa comprendere che affermare il diritto proprio non può arrivare fino a comprimere il diritto altrui che coesiste con il mio, o anche ostacolare l’adempimento del dovere altrui nell’utilizzo del mezzo di trasporto per recarsi al lavoro, se non è esso stesso strumento di lavoro (es., autotrasportatori); o generare il rischio che mezzi di soccorso siano impossibilitati a rispondere all’emergenza.

Se manifestare è più che legittimo, le modalità adottate non potranno prescindere dalla considerazione delle innumerevoli persone coinvolte (o dalle necessità possibili). Ed è proprio sul terreno costituzionale del bilanciamento di tali diritti che il dibattito in questi giorni è sempre più acceso tra chi intravede una norma repressiva del diritto di manifestare liberamente e chi ritiene che non vi sia alcuna criminalizzazione delle proteste pacifiche.

Il DDL ha inoltre previsto modifiche agli articoli del codice penale in materia di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale e resistenza, introducendo l’aggravante del cosiddetto “dissenso no-ponte” e “no-tav”. Se dunque la violenza o minaccia nei confronti del pubblico ufficiale “è commessa al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica” è disposto l’aumento delle pene.

Si è anche introdotto l’inasprimento sanzionatorio per il delitto di danneggiamento in occasione di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico (già disciplinato dall’attuale art. 635 comma 3 cod. pen.), qualora il fatto sia commesso con violenza alla persona o con minaccia.

Di estrema attualità è anche la previsione del nuovo reato di “rivolta all’interno di un istituto penitenziario” per chiunque partecipa a una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti, commessi da tre o più persone riunite.

Tra gli atti di resistenza assumeranno rilevanza penale anche i comportamenti di “resistenza passiva” che, per il numero delle persone coinvolte e il contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza.

Sono poi previste pene più severe per chi organizza e promuove la rivolta o usa armi o se derivano lesioni o morte per qualcuno. Vanno qui peraltro ricordati gli artt. 41 e 41-bis dell’Ordinamento penitenziario; il secondo, relativo alle situazioni di emergenza, mentre nel primo è già previsto, se indispensabile per prevenire o impedire violenza o tentativi di evasione, l’impiego della forza “per vincere la resistenza anche passiva”.

Il tema è attualissimo, atteso che proprio abbiamo assistito di recente all’ennesima rivolta nel Carcere romano di Regina Coeli, uno degli istituti penitenziari più sovraffollati del Paese, che da anni soffre di mancanza di spazi e unità di polizia penitenziaria, e ad un numero crescente di suicidi nelle carceri.

Il disegno di legge è intervenuto anche sul tema del carcere per le detenute madri o in stato di gravidanza. Attualmente il codice penale dispone all’art. 146 il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena se riguarda una donna incinta o madre di un bambino di meno di un anno di età. Il nuovo testo normativo vuole rendere tale rinvio dell’esecuzione della pena facoltativo, rimettendone al giudice la valutazione; se non concesso, la pena dovrà in ogni caso essere eseguita presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri (ICAM).

Il DDL Sicurezza prevede, inoltre, che nel caso in cui venga disposto il differimento della pena per una donna incinta o con un figlio di età inferiore ai tre anni, il rinvio dell’esecuzione possa essere revocato se la madre adotta comportamenti “che causano un grave pregiudizio alla crescita del minore”, e prevede che il rinvio non venga concesso se “derivi una situazione di pericolo, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti” da parte della madre.

Da segnalare per l’attualità, tra le novità introdotte e fortemente dibattute, anche l’introduzione del reato di “Occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui”, che punisce con la reclusione (da due a sette anni) chi, con violenza o minaccia, occupa o detiene arbitrariamente una casa destinata a domicilio di altri.

La stessa pena si applicherà a chi si appropria di un immobile altrui o di sue pertinenze con artifizi o raggiri, ovvero cede ad altri l’immobile occupato. Ad acquistare rilevanza le modalità violente o fraudolente, nonché la condotta con cui è impedito l’utilizzo dell’immobile al legittimo proprietario, spesso privato della sua abitazione anche di ritorno da periodi di allontanamento dalla propria casa per la degenza in strutture sanitarie o ospedaliere. Non sarà punibile, invece, l’occupante che collaborerà con le forze dell’ordine e abbandonerà l’immobile occupato. La norma appare finalizzata a contrastare il crescente fenomeno delle occupazioni abusive degli immobili e l’eccessiva durata delle procedure per lo sgombero e la reintegrazione nel possesso.

L’iter legislativo non è concluso ed è auspicabile che obiezioni e forti perplessità trovino adeguato ascolto, e che il ricorso alle forze dell’ordine non sconfini in una gestione arbitraria dell’ordine pubblico. Ma possiamo come cittadini ricordare le parole di uno dei “padri costituenti”, Piero Calamandrei: «C’è chi crede che il diritto voglia dire egoismo; in realtà il diritto quando si presenta formulato in leggi che tutti devono osservare, vuol dire altruismo. […] E nell’osservanza individuale della legge c’è la garanzia della pace e della libertà di ognuno», in una logica di solidarietà e reciprocità umana.

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