Il cuore nella mischia

Juan Ignacio Merlo e i detenuti del carcere minorile Beccaria di Milano, insieme in Freedom Rugby.
La Freedom Rugby

Lo sport, nuovo punto di partenza. E una palla ovale, sinonimo di speranza, riscatto, libertà. Già, libertà. Quella che non hanno i detenuti del carcere minorile Beccaria di Milano, cresciuti nel disagio, nella povertà, nell’abbandono, o semplicemente lontani da valori positivi. Ragazzi, giovani, adolescenti: poco più che bambini, insomma. E, proprio per questo, con tutta una vita davanti per crescere e ritrovarsi. A partire, perché no, da un campo da rugby.
«A dire il vero è un campo da calcio», precisa Juan Ignacio Merlo da Santa Fe. Trentunenne italo-argentino, Merlo è l’allenatore-giocatore dell’As Rugby Milano (squadra che milita in Serie B), nonché colui il quale, da quattro anni, porta avanti l’esperienza di Freedom Rugby. Freedom, libertà: parola chiave per i ragazzi del Beccaria, che ogni sabato mattina vengono “presi in consegna” da Juan Ignacio e da Sergio Carnovali, altro omone cresciuto a pane e palla ovale.

«Ci alleniamo per circa un’ora e mezza – racconta Merlo –, nel campo posto all’interno del carcere, partendo con sedute semplici per arrivare ad allenamenti via via più complessi. Il nostro obiettivo, però, non è certo quello di trasformare i ragazzi in futuri campioni di rugby, ma di educarli allo sport dando loro un’identità attraverso la palla ovale».
Un’esperienza, quella di Freedom Rugby, nata da un’idea di Giorgio Terruzzi, giornalista sportivo nonché dirigente dell’As Rugby Milano. «Mi è stato chiesto di partecipare a questa iniziativa nel 2009, all’inizio della seconda stagione – continua Merlo –: ho accettato subito, senza esitazioni, e adesso siamo già al quinto anno. I ragazzi, dai 15 ai 18 anni, sono aumentati man mano, e il loro numero è salito sino ad arrivare più o meno a quota 15». Una squadra fatta e finita, insomma. «Questa esperienza – aggiunge il terza linea italo-argentino – avvicina per la prima volta i detenuti al rugby. Così ogni anno, a inizio stagione, presentiamo loro la nostra disciplina. Inoltre, la maggior parte dei ragazzi scende in campo senza aver mai praticato uno sport in precedenza».

La difficoltà più grande? In un ambiente del genere, si pensa immediatamente all’aspetto comportamentale. Invece no, l’ostacolo principale è il turnover: non quello del campo, ma quello del carcere. «Al Beccaria c’è un grande “viavai” tra chi entra e chi esce – spiega Merlo –, e a volte non è facile creare un gruppo, anche perché alcuni ragazzi restano in carcere per pochi mesi. Cerco di legare subito con loro, magari approfittando del fatto che anch’io, come la maggior parte dei detenuti, vengo da un Paese straniero. Certo, da allenatore devo mantenere un po’ di distanza, ma il rapporto coi ragazzi è sempre stato ottimo». Insomma, rispetto e disciplina, come qualsiasi altra squadra di rugby. «All’inizio – rivela Merlo – i ragazzi non sanno cosa sono il rugby e i valori dello sport, perché loro sono lì per correre, scontrarsi, fare contatto. Poi, piano piano, capiscono ad esempio che quando in allenamento butti giù un compagno, lo devi aiutare a rialzarsi: non hanno mai litigato, e anzi sono molto disponibili. Un paio d’anni fa abbiamo fatto scrivere ai ragazzi le loro impressioni sul rugby e dalle loro frasi emergevano principalmente il divertimento e il rispetto».

Dopo tanti allenamenti, però, ci sarà anche l’occasione di fare qualche partita… «Certo – spiega il rugbista italo-argentino –, ne organizziamo tre all’anno. Del resto, allenarsi per il semplice gusto di farlo non motiva i ragazzi, che fremono dalla voglia di sfidare gli altri. Per questo, portiamo in carcere un gruppo di giocatori ed ex giocatori e organizziamo i match: io di solito gioco con i ragazzi, in modo da aiutarli nelle varie fasi di gara». Giornate speciali, come quella del 1° dicembre 2009, quando a gettarsi nella mischia insieme ai detenuti del Beccaria c’erano cinque All Blacks, portacolori della Nazionale neozelandese. «Un’esperienza resa possibile grazie all’aiuto di Edison, Iveco, Adidas e Bananas – tiene a sottolineare Merlo –, sponsor senza i quali Freedom Rugby non esisterebbe. Gli All Blacks si sono allenati con noi, e poi hanno dato vita a un bell’incontro nel quale hanno risposto alle domande dei ragazzi».

L’esperienza di Freedom Rugby, però, non si esaurisce certo sul campo. «Il lavoro all’interno del Beccaria è importante – spiega Juan Ignacio –, ma ancor di più lo è quello che conduciamo quando i ragazzi escono dal carcere. Cerchiamo infatti di farli restare “agganciati” al rugby, e ad alcuni di loro abbiamo trovato una squadra e pure un lavoro. Quanto a me, l’esperienza di Freedom Rugby mi ha permesso di ringraziare questo sport: se sono diventato quello che sono è per merito della palla ovale, ed è davvero bellissimo poter “ricambiare” in questo modo». Mettendo il cuore nella mischia.

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