Il crepuscolo di Roma
Sarà stato un crepuscolo, ma che splendore. Perché da Francia, Germania, Inghilterra e Russia scendevano giovani intellettuali ed artisti, sulla scia del settecentesco Grand Tour, a “visitare” Roma. Un mondo cosmopolita animava la città papale, che di rivoluzioni e di restaurazioni, da Napoleone ai moti del ’21 e del 48-49 fino all’occupazione dei “piemontesi”, ne aveva visto e ne vedrà parecchie. Roma viveva ancora dentro la cerchia delle mura Aureliane, col Foro chiamato “campo vaccino”, le vigne, le piazze, rioni, chiese immense e piccole, i teatri, i palazzi a far da contorno ad un popolo vivace, smaliziato e – per gli stranieri – dall’espressione fiera di “italianità”: fermata nelle stampe di vita paesana o nei ritratti feroci di “briganti” e di “popolane”. Una vita scandita da feste, processioni e l’immancabile corte papale, che ci parla ancora dai sonetti caustici del Belli e dai disegni del Pinelli, con Gregorio XVI severo e Pio IX a passeggio per la sua città: Roma era pur sempre il centro della cattolicità, anche se si trattava di una cattolicità che si sentiva “assediata” da massoni, liberali, carbonari e mazziniani, giocando quindi sulla difensiva. Fuori, il paesaggio – che ora non esiste quasi più – di campagne con greggi, pellegrini, osterie sulle colline e nature “orride” che sollecitavano gli artisti stranieri in cerca di emozioni nella “terra della fantasia”. Perché a Roma di gente ne scendeva, in quei decenni, davvero tanta: scrittori e poeti, come Chateaubriand, Shelley, Gogol; musicisti, come Rossini, Paganini, Liszt, Berlioz. Scultori, come Canova e Thordvalsen; pittori, come Ingres, Degas, Géricault per dire alcuni della grossa colonia dei francesi di Villa Medici, qui alloggiati dopo aver vinto l’ambito Prix de Rome. In un pullulare di accademie, concorsi, rappresentazioni musicali e teatrali, fra la suggestione della romanità, il fulgore barocco della “Roma cristiana” in un interscambio di arte, cultura e – perché no? – mercato, attivissimo. Che mondo. La storia procede per la sua strada – lo stato pontificio si va esaurendo – ma la Capitale assorbe tutto, esprime le diverse anime (i diversi raggi) del tempo col suo fascino millenario e, come sempre, riesce a conciliare gli opposti: che è quanto le rassegne, con un lavoro vasto e documentato, presentano. Alcuni esempi. Gli anni “napoleonici”. Canova e il danese Thorvaldsen riscoprono il “classico”, ne idealizzano la bellezza nei marmi, sarcofagi e monumenti. Non è solo moda, non è solo un fiorire di Accademie d’arte – pittura e scultura – dove si reinterpretano i miti o i poemi dell’antichità. È una civiltà, di cui Roma è continuatrice ed offre meravigliosi esempi, presa a modello di un mondo di armonia che, per l’ultima volta nella storia europea, si contempla. Con la nostalgia che anima i candidi gruppi delle Tre Grazie di Canova, così accesa, e quella “più razionale” di Thorvalsen. Se Napoleone fa arredare la reggia del Quirinale “all’antica”, Ingres gli dipinge per la camera da letto un soffitto con Il sogno di Ossian: una visione di miti, fantasmi pallidi e guerrieri ancestrali, di temperatura non più compostamente classica, ma di brividi e visioni già romantiche. Perché a Roma le diverse “visioni” si incontrano e per decenni il culto della storia e dell’estetica antica convive con il mito del “tipo di bellezza italiana” e della natura interpretata fantasticamen- te. Il gruppo francese ne fornisce molteplici esempi: se Géricault si appassiona, nel Ritratto di anziana, al sentimento di bellezza sfiorita o nella Corsa dei berberi drammatizza la festa popolare romana, Navez sublima nei Personaggi di Trastevere l’idea dell’Italia canora e “primitiva”, mentre il paesaggista Cogniet ritrarrà un Lago di Nemi come un sogno romantico. Ma a Roma non c’è solo epos, natura, folklore. La città è centro di fede secolare, che ora viene riaffermata con vigore. Essa si esprime anche nell’arte, col ricorso – inevitabile, data la sua storia – ai modelli dell’antichità. Si ricostruisce in forme “neoclassiche” la basilica di San Paolo distrutta dall’incendio del 1823, si celebrano i dogmi – l’Immacolata Concezione – con dipinti e colonne votive, si inaugura un’arte “iconica” esemplare che rilegge la storia cristiana come storia di martirio e di civiltà. Più che creativa, l’arte “religiosa” è “imitativa”, fissando un tipo di bellezza e di impaginazione solenne e convincente – attraverso i classici e poi Raffaello e Michelangelo – che resisterà a lungo nell’immaginario collettivo, talvolta scendendo nel devozionale, ma anche restando esempio di nobile retorica come negli affreschi di Francesco Podesti in Vaticano. Perché Roma è pur sempre la città della “gloria”, antica o cristiana che sia. Mescolata, ovviamente, alla mondanità di feste e teatri, che è poi il lato molto umano della maestà. Tutto questo mondo così fervido ed anche contraddittorio si incrina dopo il 1870. La fine dello stato pontificio segna il cedere del crepuscolo alla sera. Roma – che conoscerà uno “strazio edilizio” senza precedenti con l’amministrazione sabauda – rimane un mito, acceso periodicamente dall’esaltazione della sua “gloria” passata. Su questi decenni papalini anzi, la storiografia ideologizzata traccerà un segno negativo. Dimenticando che forse qui, per l’ultima volta, l’Italia ha parlato europeo. La mostra attuale finalmente le rende giustizia. Maestà di Roma. Da Napoleone all’unità d’Italia. Roma, Scuderie del Quirinale, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Accademia di Francia, fino al 29/6 (catalogo Electa). UNIVERSALE ED ETERNA Al Quirinale, capolavori come Il sogno di Ossian di Ingres e le due Veneri italiche (Canova e Thorvaldsen) per la prima volta a confronto. Alla Moderna vita degli artisti,committenze, mercato, contatti con musica e letteratura.A Villa Medici opere di Corot, Géricault, Ingres e numerosi esponenti della scuola “francese”. Oltre 700 pezzi fra dipinti, sculture, bronzi, disegni, avori, mobili da tutto il mondo e da collezioni private per rivivere un’atmosfera straordinaria.