Il coraggio di cambiare strategia

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Ad un anno di distanza si può valutare se la decisione solitaria del governo americano di rovesciare con un intervento militare il regime iracheno di Saddam abbia portato i risultati sperati. Al di là delle dichiarazioni ufficiali, a mio parere tale decisione era frutto di una strategia con due obiettivi: il primo, a breve termine, di risollevare velocemente, anche con le spese militari, le sorti della Borsa Valori americana, che era crollata per l’esaurirsi della decennale bolla speculativa che aveva dato a molti l’illusione di essere diventati benestanti; ed il secondo, a lungo termine, di influenzare la geopolitica mondiale per salvaguardare lo sviluppo dei consumi, che dipende dalla sicurezza di disporre di energia a basso costo. A parte i momenti di conflitto in Medio Oriente, negli ultimi decenni la sicurezza che il prezzo del petrolio si sarebbe mantenuto attorno ai 25 dollari al barile era basata sulla lunga amicizia del governo americano con quelli venezuelano e dell’Arabia Saudita. Una sicurezza che però si veniva ad incrinare con la salita al potere in Venezuela del generale Chavez, intenzionato a ripagare l’enorme debito estero del suo paese con un prezzo del petrolio più alto, ed anche con l’indebolirsi dei rapporti con la dinastia regnante in Arabia Saudita. Ciò è avvenuto sia per le precarie condizioni di salute dei fratelli che da decenni ne gestiscono il potere, che per la accresciuta precarietà della dinastia stessa, a causa della crescente insofferenza per la presenza sul sacro territorio dell’Islam, da essa permessa, di truppe di infedeli: ed anche perché molti dei seguaci di Bin Laden sono come lui di origine saudita. Se per una qualsiasi ragione, con Saddam Hussein al potere, l’Arabia Saudita non fosse stata più amica dell’Occidente, non si sarebbero potuti escludere prezzi del petrolio così elevati da far ripiombare l’intero Occidente in recessione, come era successo negli anni Settanta. Un paese esportatore di petrolio che in tali situazioni avrebbe la forza commerciale di moderare i prezzi sarebbe la Russia, ma è difficile pensare che essa sarebbe disponibile a contenere il prezzo del prodotto dalla cui esportazione origina la crescita della sua economia, ricordando che la causa economica del crollo del sistema sovietico era stata, proprio negli anni Ottanta, il crollo del prezzo del petrolio a 7 dollari al barile. Esautorando Saddam e controllando con un governo amico il petrolio iracheno, la possibilità di un cartello petrolifero contro l’Occidente veniva scongiurato, mentre in tempi brevi si sarebbe potuto triplicare la produzione di petrolio iracheno, iracheno, creando sul mercato condizioni di esubero, capaci di riportare il prezzo del petrolio a 15 dollari al barile, dando così un ulteriore impulso alla ripresa dell’economia americana, che importa il 60 per cento del petrolio che consuma. Che Bush in effetti abbia una grande necessità di far crescere la sua economia, è dettato da problemi di sopravvivenza: se essa riprende a crescere, i tanti che guadagnano importando i loro prodotti nel vorace mercato Usa continueranno ad investire i loro guadagni in quel paese, permettendogli di continuare ad indebitarsi senza che la sua moneta si riduca di valore; se, invece, perdessero fiducia nell’America, sposterebbero i loro capitali altrove, facendo crollare rovinosamente il valore del dollaro, e probabilmente provocando con esso una grave crisi economica in tutto il mondo. Fino a pochi anni fa, per i risparmiatori dei paesi a moneta debole investire in dollari era l’unica possibilità di mettere in sicurezza i loro risparmi: ma con la nascita dell’euro adesso esiste una moneta alternativa, nel presente apprezzata più del dollaro: il che, se è un vantaggio per gli investitori, rappresenta una nuova sfida per l’economia degli Stati Uniti. Ad un anno di distanza, possiamo vedere che le aspettative di Bush in pratica non si sono realizzate. Non solo sotto il profilo militare, ma anche sotto quello economico: il petrolio oggi non si vende a 15 dollari al barile, ma a 38 dollari, come ci accorgiamo andando a far benzina. A causa dei sabotaggi alle strutture petrolifere ed agli oleodotti, la produzione irachena non è triplicata, ma arriva a malapena a quella di prima della guerra, quando l’Iraq esportava solo quello che gli permetteva l’Onu per motivi umanitari; né si prevede un notevole incremento in futuro, perché gli attentati sono continui e non è materialmente possibile presidiare oleodotti che percorrono mi- gliaia di chilometri di deserto lungo i quali ovunque può essere sistemata una carica di dinamite. Ecco venire prepotentemente in luce l’importanza del fattore umano, forse trascurato nella strategia di Bush: le strutture petrolifere non sono difendibili dal terrorismo finché le popolazioni locali non le considereranno un loro bene, invece di strutture aliene, nate per sottrarre loro in cambio di pochi spiccioli una risorsa che dovrebbe assicurare il loro sviluppo, dare loro speranza per il futuro. Ma per giungere a questo non servono le armi e non sono adatti i generali: occorrono altri tipi di mediazione, e certamente servirebbe tantissimo che fosse fatto subito spazio concreto all’Onu, come sta sottolineando anche la posizione del nuovo governo spagnolo. Ma per salvare il nostro sistema di vita – criticabile, ma a cui siamo molto affezionati – non vi era alcuna soluzione alternativa possibile? Un anno fa Città nuova ne aveva suggerito una: investire risorse, anziché in una guerra, nel realizzare in pochi anni una sfida tecnologica ed industriale, capace di affrancare l’Occidente dalla necessità di importare così grandi quantità di petrolio: petrolio che comunque in futuro sarà conteso dalle economie emergenti dell’Asia, soprattutto dalla Cina e dall’India. Città nuova proponeva di varare importanti incentivi governativi per agevolare il ricambio del parco autovetture, americane ma anche europee, con nuovi modelli dal consumo dimezzato, come ad esempio le cosiddette macchine ibride, che hanno sia un motore a benzina che uno elettrico, capace di recuperare energia nelle frenate, di evitare consumi ai semafori, ecc. Tale ricambio andrebbe a grande vantaggio dell’industria automobilistica, fattore di traino per l’economia dei paesi industrializzati: un tale minore consumo per i trasporti permetterebbe inoltre a tutti i governi di rispettare il Protocollo di Kyoto sulle emissioni di gas serra. Dal marzo 2004 la in Italia la casa giapponese Toyota mette in vendita la ibrida Prius, da anni sperimentata in Giappone ed in California: una macchina ancora costosa, ma che diventerebbe presto conveniente per i risparmi di carburante che offre, visti i prezzi della benzina, se il suo acquisto fosse agevolato. In attesa delle mosse del governo americano dopo la richiesta spagnola, ed in prospettiva del risultato delle elezioni presidenziali americane del novembre prossimo, la cui importanza per il mondo non è stata mai evidente come oggi, abbiamo scoperto che negli Usa sono stati fatti dei passi avanti nella direzione della strategia da noi proposta: in California è stata varata una legge che impone in futuro la immatricolazione solo di automezzi con consumo dimezzato. È proprio di questi giorni la notizia che la Ford ha siglato un accordo con la Toyota per l’adozione per le sue produzioni della tecnologia sviluppata dalla casa giapponese per le macchine ibride. La cosa fa ben sperare: quando una grande industria automobilistica come la Ford arriva ad un accordo di tale portata, grandi novità stanno bollendo in pentola.

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