Il contagio dei virus globali
L’emergenza della febbre suina, giustamente ribattezzata influenza A (che colpa ne hanno i maiali?), ha di nuovo portato in evidenza la grande paura che incute il nostro pianeta globalizzato. Anche se nel momento in cui scriviamo la pandemia non è ancora veramente esplosa e le cifre iniziali di morti e malati sono state ridimensionate, ci stupisce la rapidità con cui l’emergenza è venuta alla luce, con le sue mascherine e il fuggifuggi dagli aeroporti. Siamo sempre di più e sempre di più ci concentriamo nelle città. Così cresce la paura. Erodoto lo diceva già prima di Cristo: La folla genera panico. Le Torri gemelle sono il simbolo di questa nuova fobia da contagio. L’11 settembre, infatti, ha dato inizio alla lotta contro il virus, quello reale o quello presunto, del terrorismo. Una lotta dispendiosissima che ha provocato un effetto collaterale inatteso: lo spargimento di tossine d’odio antiamericano ai quattro angoli del mondo. Un vero contagio, questo sì. Altro contagio globale è quello dei titoli tossici della finanza. Ne stiamo tutti pagando le conseguenze e siamo ancora lontani dallo smaltirli: si predica ottimismo senza troppa convinzione, esultando solo perché la crisi sembra aggravarsi un po’ meno di prima. Così ci si entusiasma per il genio di qualche singolo, come testimonia l’accordo Fiat-Chrysler, guarda caso una delle poche reali operazioni industriali globalizzate messe in atto. Cresce insomma la paura dei contagi, al plurale. Per combattere i virus globali i governanti erigono barriere che quasi subito si rivelano inefficaci, se non addirittura ridicole, più espedienti mediatici che reali strategie. In campo politico la guerra al terrorismo, fatta con aerei, missili e tank, pare ancora poco risolutiva di fronte al nemico invisibile, celato nelle pieghe più nascoste del nostro raggrinzito pianeta, come recita un poeta afghano. In campo economico si agisce in ordine sparso (leggi soprattutto Europa), cercando di approfittare degli sforzi altrui (leggi soprattutto Stati Uniti di Obama). In campo sanitario si pronunciano buoni propositi, si vantano milioni di flaconi di farmaci antivirali in realtà non ancora pronti all’uso, si minacciano limitazioni nei trasporti. La paura del virus globale di turno senza dubbio esiste, ma passa presto, perché i media accentuano e spettacolarizzano le tragedie più drammatiche, agendo però nell’immediatezza della diretta tv o web: amplificano istanti che fuggono e che non tornano più, inghiottiti nell’immenso deposito di parole e immagini digitalizzate in cui solo Google e Yahoo riescono forse a ripescarli. Ma qualcosa di buono e di nuovo comunque c’è. Si tratta di un fenomeno peraltro macroscopico, anche se pochi lo notano: poco alla volta, parola dopo parola, immagine dopo immagine, gli stessi media stanno rendendoci familiare il diverso da noi, quel che ci è sconosciuto e che perciò all’inizio ci fa paura. Volenti o nolenti, stiamo acquisendo una visione più ampia di questo mondo, ci stiamo conoscendo di più, al punto che, anche se nell’immediato reagiamo ai possibili nuovi contagi indignati o terrorizzati e conosciamo persino impeti di intolleranza e di razzismo, in realtà stiamo sempre più solidarizzando con l’intera umanità. Non solo noi occidentali: fanno lo stesso gli arabi che ci guardano dalle loro tv satellitari, i cinesi che leggono sui loro giornali del matrimonio tra colossi dell’auto e cercano di trarne profitto, anche gli africani che cominciano a usare i computer e a scoprire che tanta gente non vuole più sfruttare il continente nero. E allora, passata l’emergenza, bene o male ci sappiamo più vicini al lontano e ci sentiamo più solidali colle mille icone del dolore universale. È questo il contagio che ci piace e del quale su queste colonne non cessiamo di dar relazione. È questo, d’altronde, il virus che funziona meglio, perché rimanda al fondamento più semplice e profondo della persona umana: l’appartenenza allo stesso genere umano. Appartenenza che ci affratella.