Il condominio di via Shogentsukova
In Cabardino-Balcaria, repubblica autonoma russa, un caseggiato popolare indica una convivenza possibile.
Fa sera, il fresco piano piano lenisce le piaghe della giornata. Il condominio ha un portone verde di metallo che chiude male, è graffiato, si vedono le saldature mal rifinite, ha due o tre numeri scritti e poi cancellati. I cardini girano a fatica, tanto che un paio di essi sembrano volersi sganciare dal muro. Le scale hanno una ringhiera metallica pure verde, mentre i gradini in conglomerato hanno perso pezzi più o meno evidenti, e sono scrostati e cadenti. Le porte? Non ce n’è una uguale alle altre, quasi tutte sono metalliche tranne un paio, in legno. Il tutto avvolto in un intonaco dipinto d’un colore che non si riesce più a definire sulla base verde… È lo stesso che ricopre la facciata della casa, che impedisce in ogni caso di essere definita con un colore preciso: ogni inquilino ha ricoperto infatti il proprio balcone con infissi diversi o con maioliche spaiate, o con grate dalle forme più originali (o strampalate).
Eppure questo condominio ha da dire molto, perché qui non c’è quel melting pot alla statunitense che lascia tutto così com’è, né integrazione à la française che obbliga a cambiar di cultura, e nemmeno una convivenza londonian in cui si conservano le proprie abitudini sotto una parvenza di egualitarismo. Qui c’è reale integrazione. Mi faccio aprire le porte degli appartamenti…
Valeria
Eppure questo condominio ha da dire molto, perché qui non c’è quel melting pot alla statunitense che lascia tutto così com’è, né integrazione à la française che obbliga a cambiar di cultura, e nemmeno una convivenza londonian in cui si conservano le proprie abitudini sotto una parvenza di egualitarismo. Qui c’è reale integrazione. Mi faccio aprire le porte degli appartamenti…
Valeria
Al quinto piano abita Valeria, russa; il marito che l’ha lasciata è cabardo, ha due figli, per 42 anni ha lavorato nelle ferrovie: «Qui a Nalcik si vive bene, perché la vita costa meno che nel resto della Russia, la gente è gentile ovunque e c’è molto verde. La gente chiama Nalcik “la bella addormentata”. Qui, nel condominio, siamo tutti amici, come appare evidente ai funerali, alle feste, quando uno ha bisogno. Se manca lo zucchero, qualsiasi abitante di questo palazzo me lo darebbe!». Il salotto è pulitissimo, al muro sono appesi tappeti, come vedrò in quasi tutte le abitazioni del condominio. Valeria appare un po’ triste e sola: «Ma gli amici del condominio mi sono vicini. Quando c’è stato l’attacco terroristico del 13 ottobre 2005, mio figlio poliziotto mi ha telefonato di non uscire di casa. Ma da Tamara sono andata… Nalcik non è mica Grozny!».
Tamara
Tamara, appunto, è cabarda. Ci accoglie nella sua decorosa camera da letto, profumata direi, dopo essersi trascinata fino alla porta per aprirci: «Noi apriamo la porta sempre a tutti», commenta. È malata Tamara, molto malata, per un ictus preso due anni dopo la morte del figlio, deceduto per una leucemia presa a Tchernobyl, dove lavorava come militare, si era ancora nel primo periodo post-sovietico, assai confuso. E per giunta il marito l’ha lasciata. «Con l’aiuto dei vicini riesco a muovermi, a fare qualcosa. Sono molto grata a tutti loro, che sono diventati i miei familiari». Sorride, Tamara, coi suoi denti neri mangiati dalle carie: «La vita è stata difficile, ma sono musulmana e credo in Dio. Lo prego e lui mi dà conforto». Tamara mi mostra una foto del figlio: «Non ha voluto dirmi che era ammalato. Finché un giorno ho visto che prendeva delle medicine. Ho scritto il nome su un foglietto e sono andata dal medico per sapere di cosa si trattasse. L’ho saputo, e ho pianto. Ma l’ho anche ammirato. Dio m’ha dato questo figlio meraviglioso, e Dio me l’ha tolto. Lodato sia il nome del Signore».
Rosa, Kurmanda, Marika e Igor
Scendo al quarto piano, c’è un certo via vai nel condominio per via della mia presenza. Ma tutti sorridono passando… Sul pianerottolo, all’appartamento 43, c’è la signora Rosa, con i nipoti Kurmanda, Marika e Igor, tutti balcari. Mi accoglie come fossi della famiglia da lunghissimo tempo. Vuole subito offrirmi un tè e dei pasticcini. «Bisogna dire che non viviamo male – comincia così –, perché non si può offendere Dio. Sono balcara, ma qui nella pianura mi ci trovo bene, a differenza di altri che non sono soddisfatti della loro vita qui». Crede? «Non vado in moschea, ma prego cinque volte al giorno, anche se durante il comunismo avevo smesso di farlo. I miei bambini erano piccoli, ma dicevo comunque loro che Allah è l’unico Dio e bisogna credere in lui». Il palazzo? «Vado d’accordo con tutti, da 49 anni. Quelli che entrano per il nostro ingresso sono tutti amici, e a nessuno chiedo la carta d’identità. Quando dei vicini cabardi sono partiti per Mosca, abbiamo tutti pianto. E ai funerali andiamo nella chiesa o nella moschea».
Aleksandr e Svetlana
Terzo piano. Aleksandr è russo mentre Svetlana, sua moglie, è cabarda. Sono gentili anche se riservati. Più volte ci invitano a rimanere a cena a casa loro. Sono innamorati, dopo 33 anni di matrimonio. «Venivo qui in vacanza – dice Aleksandr – perché mi trovavo proprio bene. Qui ho conosciuto mia moglie e ci siamo sposati. Io sono ortodosso, lei è musulmana, ma non abbiamo nessun problema, c’è parità assoluta tra di noi. E anche nel palazzo: alle feste comandate degli uni o degli altri c’è un andirivieni nelle scale, perché ci si fa regali reciprocamente. E ci si intrattiene negli appartamenti di chi festeggia a lungo, si mangia, si beve (poco, fortunatamente), ci si raccontano le nostre cose, le nostre paure, le nostre vicende». Svetlana riprende, ma cambia discorso: «I nostri giovani non hanno lavoro, sono disperati, e quindi non hanno nessuna prospettiva dinanzi a loro. Star senza far niente è terribile. Sono tutti di qua, questi attentatori, ma istigati dai wahhabiti, chissà come abbiamo fatto a vivere accanto a loro senza accorgerci di nulla, è terribile! Ci sono soldi che girano, ma sono distribuiti male, e quindi si creano gelosie e sentimenti di profonda ingiustizia. Bisogna trovare nuovi posti di lavoro nella cura dei campi». Cabardi e balcari sono nemici? «Mai, mai, mai! Il nostro popolo non abbandona l’altro che è nel bisogno».
Lo scampanellio accanto ad Alexandr e Svetlana resta senza risposta. Qui abita una coppia di ceceni con i tre figli. Ma in questi giorni sono a Grozny. Prima di partire, in mattinata, hanno lasciato un biglietto sapendo della nostra venuta: «Ci dispiace, ma dovevamo partire perché la mamma sta male. Se fossimo rimasti, le avremmo detto che qui il portone può rimanere sempre aperto, perché nel nostro condominio la pace è l’unica legge. Ci vogliamo tutti bene, non come accade dalle parti nostre».
Elena e Mohammed
Elena e il figlio Mohammed, balcari, vivono qui. Il figlio, avrà quarant’anni, è un gran manuale, e ha reso il suo appartamento particolarmente pulito e armonioso. Lei era principessa, viene dalle pendici del monte Elbrus. «Siamo qui dalla nascita – mi dice –. Mio papà era morto in guerra, e due fratelli deportati erano morti di stenti. Ma non ho mai accusato i cabardi di vigliaccheria». Poi accenna al condominio: «Non ci sono problemi tra noi. Sono lavandaia e conosco tutti in questa casa e anche in quelle vicine. Posso assicurarvi che mai ho sentito un litigio».
Mohammed parla invece di politica: «A parte Ossezia del Sud, Inguscezia e Cecenia, le cose vanno ormai abbastanza bene. Qui non può succedere nulla di quello che accade lì, anche se qualcuno ha cercato e cerca ancora di far in modo che qualcosa scoppi. Questa, anzi, è una delle repubbliche dove i ceceni che possono farlo vengono in vacanza, per via dei nostri sanatori». Riprende Elena: «Mio marito era osseto, mio cognato è georgiano, mia sorella ha sposato un uomo della Moldova, mia cugina un daghestano, mia nipote un tedesco! Come possiamo farci la guerra quando siamo tutti parenti, in un modo o nell’altro? E anche la religione non può scatenare la guerra; siamo musulmani, ma non sappiamo nulla dell’Islam».
Damal e Farisat
Dall’altro lato del pianerottolo ci sono Damal e Farisat, balcari, ultraottantenni, lui del ’26, lei del ’29. «Ho perso tre degli otto fratelli nella deportazione – mi spiega –, mentre io mi sono salvato. Poi ho lavorato per 16 anni in miniera, e dal 76 sono pensionato, per aver fatto un lavoro duro come il minatore. Ma non posso stare seduto e allora ho trovato lavoro alle Poste. Ho fatto 5 figli, 26 nipoti e pronipoti. Poi 19 anni fa mi sono risposato, essendo rimasto vedovo, e sono sceso dalla montagna qui in città». Gli chiedo se abbia qualcosa contro i cabardi per via della deportazione: «Assolutamente no, perché i cabardi erano con noi, e alcuni sono pure stati deportati perché scambiati per balcari. Quando siamo partiti hanno occupato tante delle nostre case, ma quando siamo tornati le hanno liberate quasi tutte. Le autorità ci avevano raccomandato che non dovevamo pretendere le vecchie case. Ma quasi tutti ci hanno restituito il nostro. Nel mio villaggio c’erano 47 mila pecore, mucche senza numero, 14 caseifici. Ci siamo rifatti una vita al ritorno».
Tamara, Aleksander, Roman e Denis
La serata si conclude, ovviamente al quarto piano, a casa dell’amica Natalia, col marito Alexander e i figli Roman e Denis. Una famiglia che vive in un piccolo appartamento senza pretese, che il marito carpentiere ha adattato in larghezza (il terrazzino) e in altezza (creando un mezzanino). Sono aperti. Parliamo di tutto, dalle attese dei giovani alla sete spirituale della gente, dal loro matrimonio religioso non ancora celebrato (lui non crede, lei è cristiana, i figli sono battezzati), della naturale tendenza della famiglia ad essere elemento catalizzatore del condominio. Mi mostrano foto di montagna e di festa, aprono il loro cuore in uno spirito commovente. Il piccolo interviene più volte, raramente fuori luogo. Loro, russi, sono un vero elemento catalizzatore dell’intero condominio. Padre e figlio cantano suggestive canzoni russe, e David si esibisce in un concertino di violoncello. Roman racconta dei suoi studi a San Pietroburgo, e della sua preferenza per la vita semplice di Nalcik rispetto a quella delle grandi città, piene di gente drogata, alcolizzata e violenta. Meglio il piccolo paesello, meglio la Cabardino-Balcaria, pur con tutti i suoi problemi e la sua miseria.
Tamara
Tamara, appunto, è cabarda. Ci accoglie nella sua decorosa camera da letto, profumata direi, dopo essersi trascinata fino alla porta per aprirci: «Noi apriamo la porta sempre a tutti», commenta. È malata Tamara, molto malata, per un ictus preso due anni dopo la morte del figlio, deceduto per una leucemia presa a Tchernobyl, dove lavorava come militare, si era ancora nel primo periodo post-sovietico, assai confuso. E per giunta il marito l’ha lasciata. «Con l’aiuto dei vicini riesco a muovermi, a fare qualcosa. Sono molto grata a tutti loro, che sono diventati i miei familiari». Sorride, Tamara, coi suoi denti neri mangiati dalle carie: «La vita è stata difficile, ma sono musulmana e credo in Dio. Lo prego e lui mi dà conforto». Tamara mi mostra una foto del figlio: «Non ha voluto dirmi che era ammalato. Finché un giorno ho visto che prendeva delle medicine. Ho scritto il nome su un foglietto e sono andata dal medico per sapere di cosa si trattasse. L’ho saputo, e ho pianto. Ma l’ho anche ammirato. Dio m’ha dato questo figlio meraviglioso, e Dio me l’ha tolto. Lodato sia il nome del Signore».
Rosa, Kurmanda, Marika e Igor
Scendo al quarto piano, c’è un certo via vai nel condominio per via della mia presenza. Ma tutti sorridono passando… Sul pianerottolo, all’appartamento 43, c’è la signora Rosa, con i nipoti Kurmanda, Marika e Igor, tutti balcari. Mi accoglie come fossi della famiglia da lunghissimo tempo. Vuole subito offrirmi un tè e dei pasticcini. «Bisogna dire che non viviamo male – comincia così –, perché non si può offendere Dio. Sono balcara, ma qui nella pianura mi ci trovo bene, a differenza di altri che non sono soddisfatti della loro vita qui». Crede? «Non vado in moschea, ma prego cinque volte al giorno, anche se durante il comunismo avevo smesso di farlo. I miei bambini erano piccoli, ma dicevo comunque loro che Allah è l’unico Dio e bisogna credere in lui». Il palazzo? «Vado d’accordo con tutti, da 49 anni. Quelli che entrano per il nostro ingresso sono tutti amici, e a nessuno chiedo la carta d’identità. Quando dei vicini cabardi sono partiti per Mosca, abbiamo tutti pianto. E ai funerali andiamo nella chiesa o nella moschea».
Aleksandr e Svetlana
Terzo piano. Aleksandr è russo mentre Svetlana, sua moglie, è cabarda. Sono gentili anche se riservati. Più volte ci invitano a rimanere a cena a casa loro. Sono innamorati, dopo 33 anni di matrimonio. «Venivo qui in vacanza – dice Aleksandr – perché mi trovavo proprio bene. Qui ho conosciuto mia moglie e ci siamo sposati. Io sono ortodosso, lei è musulmana, ma non abbiamo nessun problema, c’è parità assoluta tra di noi. E anche nel palazzo: alle feste comandate degli uni o degli altri c’è un andirivieni nelle scale, perché ci si fa regali reciprocamente. E ci si intrattiene negli appartamenti di chi festeggia a lungo, si mangia, si beve (poco, fortunatamente), ci si raccontano le nostre cose, le nostre paure, le nostre vicende». Svetlana riprende, ma cambia discorso: «I nostri giovani non hanno lavoro, sono disperati, e quindi non hanno nessuna prospettiva dinanzi a loro. Star senza far niente è terribile. Sono tutti di qua, questi attentatori, ma istigati dai wahhabiti, chissà come abbiamo fatto a vivere accanto a loro senza accorgerci di nulla, è terribile! Ci sono soldi che girano, ma sono distribuiti male, e quindi si creano gelosie e sentimenti di profonda ingiustizia. Bisogna trovare nuovi posti di lavoro nella cura dei campi». Cabardi e balcari sono nemici? «Mai, mai, mai! Il nostro popolo non abbandona l’altro che è nel bisogno».
Lo scampanellio accanto ad Alexandr e Svetlana resta senza risposta. Qui abita una coppia di ceceni con i tre figli. Ma in questi giorni sono a Grozny. Prima di partire, in mattinata, hanno lasciato un biglietto sapendo della nostra venuta: «Ci dispiace, ma dovevamo partire perché la mamma sta male. Se fossimo rimasti, le avremmo detto che qui il portone può rimanere sempre aperto, perché nel nostro condominio la pace è l’unica legge. Ci vogliamo tutti bene, non come accade dalle parti nostre».
Elena e Mohammed
Elena e il figlio Mohammed, balcari, vivono qui. Il figlio, avrà quarant’anni, è un gran manuale, e ha reso il suo appartamento particolarmente pulito e armonioso. Lei era principessa, viene dalle pendici del monte Elbrus. «Siamo qui dalla nascita – mi dice –. Mio papà era morto in guerra, e due fratelli deportati erano morti di stenti. Ma non ho mai accusato i cabardi di vigliaccheria». Poi accenna al condominio: «Non ci sono problemi tra noi. Sono lavandaia e conosco tutti in questa casa e anche in quelle vicine. Posso assicurarvi che mai ho sentito un litigio».
Mohammed parla invece di politica: «A parte Ossezia del Sud, Inguscezia e Cecenia, le cose vanno ormai abbastanza bene. Qui non può succedere nulla di quello che accade lì, anche se qualcuno ha cercato e cerca ancora di far in modo che qualcosa scoppi. Questa, anzi, è una delle repubbliche dove i ceceni che possono farlo vengono in vacanza, per via dei nostri sanatori». Riprende Elena: «Mio marito era osseto, mio cognato è georgiano, mia sorella ha sposato un uomo della Moldova, mia cugina un daghestano, mia nipote un tedesco! Come possiamo farci la guerra quando siamo tutti parenti, in un modo o nell’altro? E anche la religione non può scatenare la guerra; siamo musulmani, ma non sappiamo nulla dell’Islam».
Damal e Farisat
Dall’altro lato del pianerottolo ci sono Damal e Farisat, balcari, ultraottantenni, lui del ’26, lei del ’29. «Ho perso tre degli otto fratelli nella deportazione – mi spiega –, mentre io mi sono salvato. Poi ho lavorato per 16 anni in miniera, e dal 76 sono pensionato, per aver fatto un lavoro duro come il minatore. Ma non posso stare seduto e allora ho trovato lavoro alle Poste. Ho fatto 5 figli, 26 nipoti e pronipoti. Poi 19 anni fa mi sono risposato, essendo rimasto vedovo, e sono sceso dalla montagna qui in città». Gli chiedo se abbia qualcosa contro i cabardi per via della deportazione: «Assolutamente no, perché i cabardi erano con noi, e alcuni sono pure stati deportati perché scambiati per balcari. Quando siamo partiti hanno occupato tante delle nostre case, ma quando siamo tornati le hanno liberate quasi tutte. Le autorità ci avevano raccomandato che non dovevamo pretendere le vecchie case. Ma quasi tutti ci hanno restituito il nostro. Nel mio villaggio c’erano 47 mila pecore, mucche senza numero, 14 caseifici. Ci siamo rifatti una vita al ritorno».
Tamara, Aleksander, Roman e Denis
La serata si conclude, ovviamente al quarto piano, a casa dell’amica Natalia, col marito Alexander e i figli Roman e Denis. Una famiglia che vive in un piccolo appartamento senza pretese, che il marito carpentiere ha adattato in larghezza (il terrazzino) e in altezza (creando un mezzanino). Sono aperti. Parliamo di tutto, dalle attese dei giovani alla sete spirituale della gente, dal loro matrimonio religioso non ancora celebrato (lui non crede, lei è cristiana, i figli sono battezzati), della naturale tendenza della famiglia ad essere elemento catalizzatore del condominio. Mi mostrano foto di montagna e di festa, aprono il loro cuore in uno spirito commovente. Il piccolo interviene più volte, raramente fuori luogo. Loro, russi, sono un vero elemento catalizzatore dell’intero condominio. Padre e figlio cantano suggestive canzoni russe, e David si esibisce in un concertino di violoncello. Roman racconta dei suoi studi a San Pietroburgo, e della sua preferenza per la vita semplice di Nalcik rispetto a quella delle grandi città, piene di gente drogata, alcolizzata e violenta. Meglio il piccolo paesello, meglio la Cabardino-Balcaria, pur con tutti i suoi problemi e la sua miseria.
_____________________________
La bella addormentata
La Cabardino-Balcaria è una delle repubbliche autonome che ricadono nel Caucaso russo, a nord della grande catena montuosa. Conta due etnie principali, quella cabarda e quella balcara (ora pacificate, ma dopo decenni di lotta), oltre a decine di altre etnie russe e caucasiche. La disoccupazione supera il 70 per cento, mentre il reddito viene sostenuto dai contributi dello Stato.
Il terrorismo radicale islamista qui ha fatto proseliti, come testimoniano alcuni gravi attentati dell’ultimo decennio, ma l’ideologia wahhabita non ha fatto presa sulla popolazione. La popolazione è al 40 per cento musulmana, al 10 per cento cristiana, mentre metà della popolazione è agnostica o atea.
La bella addormentata
La Cabardino-Balcaria è una delle repubbliche autonome che ricadono nel Caucaso russo, a nord della grande catena montuosa. Conta due etnie principali, quella cabarda e quella balcara (ora pacificate, ma dopo decenni di lotta), oltre a decine di altre etnie russe e caucasiche. La disoccupazione supera il 70 per cento, mentre il reddito viene sostenuto dai contributi dello Stato.
Il terrorismo radicale islamista qui ha fatto proseliti, come testimoniano alcuni gravi attentati dell’ultimo decennio, ma l’ideologia wahhabita non ha fatto presa sulla popolazione. La popolazione è al 40 per cento musulmana, al 10 per cento cristiana, mentre metà della popolazione è agnostica o atea.