Il Concilio Vaticano II: l’evento e la forma

2500 vescovi di 116 Paesi del mondo inaugurano uno stile e un linguaggio nuovo.
Una celebrazione del Concilio nel 1963

Più ci si allontana dal Concilio (ormai sono passati 50 anni) più si corre il rischio di leggere i suoi documenti (se si leggono) come puri scritti dottrinali, avulsi dal loro contesto, fermandosi ai nudi enunciati dell’insegnamento. Per una retta ermeneutica e adeguata recezione del Vaticano II è indispensabile collocarsi nell’orizzonte dell’evento conciliare in sé, riviverne il clima, cogliere gli atteggiamenti assunti dai padri nei confronti della tradizione e della società contemporanea, prestare attenzione allo stile letterario volutamente nuovo dei testi. Inoltre non si può capire il Concilio senza tenere presenti certi gesti significativi compiuti allora, che ne hanno segnato il corso, come il viaggio di Paolo VI in Terra Santa, autentico pellegrinaggio alle fonti del cristianesimo, il suo viaggio in India per dare il senso della missione della Chiesa nel mondo di oggi, il suo incontro con il patriarca ecumenico ortodosso Athenagoras I e l’abolizione delle reciproche scomuniche quale proclamazione tangibile di sincero dialogo ecumenico.
 
Il Concilio inaugurava uno stile nuovo. Alcune immagini, a prima vista di sapore folcloristico, come le tiare esotiche dei patriarchi orientali che ondeggiavano tra le mitre dei vescovi latini, i padri conciliari in giro per Roma sulla Vespa, le provenienze diversissime evidenti dai volti asiatici e africani, facevano prendere coscienza di una cattolicità fino ad allora proclamata ma mai sperimentata in maniera così immediata e diretta. Che i padri giungessero da 116 nazioni destava indubbiamente impressione: 250 venivano dall’Africa nera, 174 dal blocco comunista, 95 dal mondo arabo, 256 dal mondo asiatico, 70 dall’Oceania. Quando mai si era vista una tale varietà? L’evento Concilio faceva inoltre prendere coscienza non soltanto della cattolicità della Chiesa ma, grazie alla presenza di osservatori delle Chiese sorelle, della sua dimensione ecumenica. O meglio, la cattolicità si dispiegava nella sua realtà più profonda.
 
L’evento Concilio non spalancava soltanto l’orizzonte della Chiesa sul mondo intero, faceva sperare anche in un rinnovamento all’interno della Chiesa, annunciato profeticamente da quella parola di Giovanni XXIII che presto divenne l’emblema del Concilio: “aggiornamento”. Si aveva la sensazione che nella Chiesa cominciasse ad entrare una ventata d’aria fresca, il soffio di una “nuova Pentecoste”, come subito la chiamò il papa. Tra le innumerevoli testimonianze basterà quella del cardinal Martini: «La mia educazione religiosa, catechetica, teologica è tutta preconciliare. Il sistema era molto organico, privo di fantasia e di creatività. Il Concilio fu un momento straordinario, forse quello più bello della mia vita, quello in cui si poteva ripensare, rilanciare e riproporre, in cui si sentiva vibrare una scioltezza, una libertà di parola, una capacità di penetrazione nuova. In tanti di noi c’era davvero un desiderio di maggiore autenticità, verità, povertà, umiltà nella Chiesa: via gli onori, via tutte le pomposità, via tutti gli orpelli».
Un ulteriore aspetto del clima nuovo che si respirava al Concilio era l’atteggiamento di apertura e di fiducia nei confronti della società contemporanea. Il Concilio è stato un cenacolo, ma non a porte chiuse. I padri conciliari, come gli apostoli a Pentecoste, si trovarono proiettati al di fuori dal soffio dello Spirito, nella presa di coscienza di un rapporto costitutivo con quello che allora si chiamava “il mondo”. Esso non costituiva soltanto un oggetto di evangelizzazione, ma prima di tutto il luogo nel quale ripensare lo stesso messaggio evangelico. Di qui l’esigenza del discernimento dei “segni dei tempi”, lo sguardo rivolto al presente, quale fattore determinante del dettato conciliare.
A cominciare dal discorso d’apertura di Giovanni XXIII, il Concilio si è posto in atteggiamento di “simpatia” e d’amore, di solidarietà e di condivisione, di immersione verso la società contemporanea. Non si potevano più esporre le verità evangeliche in maniera astratta, senza tenere conto delle condizioni reali del mondo attuale, delle sue angosce e attese, senza entrare in intima solidarietà con gli uomini e le donne di oggi. Soltanto pochi anni prima sarebbe stato impensabile un tale atteggiamento di apertura verso la società contemporanea e non importa risalire fino al Sillabo o all’enciclica Pascendi. Come scrisse Paolo VI, il Concilio aveva adottato una modalità che «contrasta in parte con l’atteggiamento che segnò alcune pagine della sua [della Chiesa] storia»; al posto della condanna, della chiusura, aveva adottato il linguaggio «dell’amicizia, dell’invito al dialogo».
 
Dovendo dialogare con gli uomini e le donne del nostro tempo e proporre ad essi la verità evangelica, il Concilio doveva necessariamente adottare un linguaggio adeguato. Di qui l’abbandono dello stile tecnico e giuridico caratteristico dei concili precedenti e della neoscolastica, per uno più evangelico, che attinge direttamente alla Sacra Scrittura e ai padri della Chiesa. La necessità e l’importanza di un nuovo stile comunicativo fu richiamato da Giovanni XXIII nel discorso di apertura: «Altra cosa è infatti il deposito stesso della fede, vale a dire le verità contenute nella nostra dottrina, e altra cosa è la forma con cui quelle vengono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata. Bisognerà attribuire molta importanza a questa forma».
Penso che la Chiesa di oggi abbia bisogno di ritrovare questo stile conciliare, la stessa “simpatia” e vicinanza nei confronti della società di oggi, una immersione nei reali problemi per assumerli e offrire il proprio contributo alla loro soluzione. Senza dimenticare l’importanza del linguaggio e della forma.

Fabio Ciardi

 
Nuova evangelizzazione
Accendere la presenza di Dio
 
L’11 ottobre ricorrono i 50 anni dall’apertura del Vaticano II. In questa data Benedetto XVI ha voluto l’avvio del Sinodo sulla “nuova evangelizzazione”. E in verità la finalità di entrambi gli eventi è la stessa: ritrovare, da Dio, la via per accendere la sua presenza nel mondo.
Così, più di una volta, si è espresso il papa. In un tempo in cui la presenza di Dio, con la sua luce e la sua gioia inconfondibili, giorno dopo giorno sembra affievolirsi sin quasi a spegnersi, è urgente e prioritario – ha sottolineato – accenderla di nuovo e in modo nuovo.
Ma per quale via?
Il Vaticano II l’ha intuito. Non aveva vaticinato Giovanni XXIII nel convocarlo, sospinto – testimoniò – da “uno sprazzo di superna luce”, che si sarebbe trattato di una “nuova Pentecoste”?
 Karl Rahner, uno dei teologi che ha coadiuvato l’opera dei padri conciliari, scriveva che lungo la modernità i cristiani hanno rischiato di diventare individualisti nella vita di fede, mentre oggi è scoccata l’ora di una spiritualità decisamente comunitaria: del tipo di quella che ha acceso il cuore e la mente degli apostoli a Pentecoste.
Che sia così? Che occorra mettersi alla scuola dello Spirito Santo per sperimentare come la presenza di Dio dal profondo del cuore abbia da espandersi e prender forma nella presenza di Dio “tra” noi? E, di converso, come la presenza di Dio “tra” noi possa alimentare e far toccare con mano la presenza di Dio in ciascuno?
Chiara Lubich, 20 anni prima del Concilio, ha ricevuto in dono da Dio il segreto per compiere questo scatto. Si tratta – ha testimoniato – di portare a compimento lo straordinario monumento di santità e di buone opere propiziato dall’esperienza del “castello interiore” (Dio Trinità che dimora nell’anima del singolo) nell’esperienza inedita del “castello esteriore” (Dio Trinità che dimora dove due o più sono uniti nel nome di Gesù).
Per far questo, spiegava, occorre saper “perdere”, per amore, la ricerca di Dio in sé affinché la sua presenza si accenda tra tutti. La via, continuava, è quella insegnataci da Gesù nel suo abbandono: quando ha “perso” Dio in sé, il sentimento vivo cioè dell’unione col Padre, per amore degli uomini.
Penso sia per questa ragione che l’esperienza e la dottrina di Chiara, che stanno diventando patrimonio di tutta la cristianità e oltre, si mostrino a tutt’oggi in sintonia con la profezia del Vaticano II.
Il fatto è che ovunque ci si mette alla scuola di quest’arte tutta divina e tutta umana che accende e incarna la presenza di Dio tra le persone, comincia ad albeggiare il mondo nuovo cui tutti aneliamo.

Piero Coda

 
Concilio Vaticano II: i fatti
 
Prologo. Il Concilio Vaticano I si era concluso il 18 luglio del 1870 con il decreto sull’infallibilità personale del papa, ma era rimasto un Concilio sospeso e non chiuso per un pontefice, Pio IX, sotto pressione dei mazziniani e dei bersaglieri di Cadorna.
L’idea di un nuovo Concilio era riaffiorata nel Novecento con Pio XI, che aveva consultato un migliaio di vescovi tra il ’21 e il ’25, ma non si era potuta realizzare per le preoccupazioni dell’irrisolta questione del patto di conciliazione con lo Stato italiano e per le tensioni internazionali. Dopo la Seconda guerra mondiale Pio XII rinunciò a un nuovo Concilio dopo che aveva esaminato un accurato promemoria sull’opportunità di una nuova assise ecumenica preparato dal futuro cardinale Celso Costantini.
 Evidentemente serviva «un uomo della provvidenza», un pastore semplice e intuitivo che sapesse cogliere «i segni dei tempi». Eletto papa a 76 anni, Giovanni XXIII aveva spiazzato la Chiesa e il mondo con la sua folle idea di un Concilio Vaticano II.
L’annuncio a sorpresa era avvenuto nella basilica di San Paolo in una riunione a porte chiuse il 25 gennaio del 1959 con 18 cardinali. La notizia trapelò tramite un sacerdote tedesco in Germania e da lì al mondo intero.
Il cardinale Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, aveva appresa la notizia alla radio e in una telefonata con il suo grande amico padre Bevilacqua aveva esclamato sgomento: «Che vespaio! Che vespaio!».
Giovanni XXIII nel suo Giornale dell’anima rivelerà il segreto: «Tra le grandi grazie che mi ha fatto il Signore, c’è quella di avermi suggerito improvvisamente l’idea di un Concilio, mentre stavo parlando con il mio segretario di Stato, il cardinale Tardini, senza averci pensato prima».
In realtà, scrive lo storico gesuita Giacomo Martina che «l’idea gli si affacciò, prepotente, la sera del 28 ottobre del 1958», il giorno della sua elezione a pontefice, e ne parlò per due mesi con i più stretti collaboratori e confidenti. Papa Roncalli ebbe il tempo di macerare l’idea prima di presentarla, in modo del tutto inaspettato, il 25 gennaio del 1959.
E anche se non esistono registrazioni audio-video, anni prima il cardinal Angelo Roncalli, patriarca di Venezia, aveva già detto, scherzando: «Se mi fanno papa, indico un Concilio».
Non voleva, in ogni caso, né condanne, né dogmi, ma «pensava ‒ scrive ancora Giardina ‒ a presentare la Chiesa nella sua integrità e voleva ricordare, in formule nuove, adatte ai tempi, quei princìpi sempre veri e troppo spesso dimenticati».
Nel suo discorso di apertura del Concilio, l’11 ottobre del 1962, Giovanni XXIII, pieno di ottimismo, dissentì contro «i profeti di sventura» e apriva la Chiesa e il mondo intero a nuove speranze.
La sua ingenua e felice intuizione fu, poi, portata a compimento da Paolo VI che chiuse il Concilio Vaticano II l’8 dicembre del 1965, dopo 3 anni di lavori, 4 sessioni, 16 documenti (4 costituzioni, 9 decreti e 3 dichiarazioni) con l’apporto di oltre 2500 vescovi provenienti da 116 Paesi di tutti i continenti.
 Il 18 novembre del 1965, a 20 giorni dalla chiusura dell’evento più universale, partecipato e importante della Chiesa cattolica, Paolo VI rivolgendosi ai padri conciliari aveva detto: «Questa fine è piuttosto principio di molte cose».
Un cantiere, ancora oggi, aperto.

Aurelio Molè

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