Il colore della solitudine
Un problema che coinvolge milioni di persone. Ma anche un elemento essenziale della vita.
M’hanno raccontato un fatterello. Diversi anni fa, durante un torneo di scacchi, un maestro stava seduto profondamente assorto. All’improvviso, si scatenò il panico. La gente gridava e scappava: una violenta scossa di terremoto – quello del ’76 in Friuli – aveva fatto sobbalzare la terra. L’unico che non s’era mosso dal tavolino era lui, lo scacchista, che continuava imperterrito nell’analisi della partita.
Lui notava appena quel trambusto intorno: l’amore per il gioco era così forte che nemmeno il terremoto riusciva a fargli perdere la concentrazione. Era rimasto lì, solo. Ma era veramente solo? Probabilmente no. Chi vive d’una grande passione difficilmente si sente solo, anche se non ha altri attorno.
Altro fatterello. Quest’estate m’è capitato di trovarmi sulla strada che, fra greggi di pecore che t’osservano come un intruso, da Monte Sant’Angelo conduce all’antica abbazia di Santa Maria di Pulsano nel Gargano.
Nelle pareti di questo dirupo sono ancora ben visibili le grotte elette a dimora da tanti monaci nei secoli passati. In totale solitudine, tra quelle inaccessibili pareti di roccia, essi si dedicavano totalmente alla preghiera, tra voli silenziosi di falchi e corvi reali e mare blu. Ma erano veramente soli? Probabilmente no. Erano in dialogo continuo e appassionato con l’Eterno, ch’essi sperimentavano come una presenza ben più vitale d’ogni altra compagnia.
Quando si è animati da un grande amore, anche se per qualcosa o qualcuno d’intangibile, non si conosce la solitudine, sebbene si sia da soli.
Perché la solitudine è una brutta bestia. È stare a casa la sera e non aver nessuna voglia di mettersi a cenare da solo. È guardare quel parallelepipedo del cellulare che non trilla, che non vibra di messaggi: nessuno ti cerca. È fissare la lancetta dell’orologio che sembra spostare un macigno ad ogni secondo: il tempo non ti passa. È guardare dalla finestra quelli che la domenica escono, e tu non hai nessuno con cui uscire.
La solitudine è desolazione, buio, deserto, è l’opposto della vita. Non ha nulla di nobile. Perché siamo fatti per il rapporto, per l’amicizia.
Eppure nella società contemporanea la solitudine è un problema che coinvolge drammaticamente milioni di persone. C’è chi si barrica nella solitudine per eccessiva, se non patologica, timidezza. Ci sono giovani che si sentono soli, perché non si riconoscono nel mondo degli adulti e non hanno alcuna fiducia nel futuro che si para loro davanti: a volte ricorrono a soluzioni approssimative o artificiali, spesso più nocive del problema che intendono combattere.
Ci sono persone anziane che si ritrovano scaricate dalla famiglia, e si riconoscono un peso ingombrante e mal tollerato. Ci sono solitudini antiche, come la vedovanza; e solitudini moderne, come le separazioni. Molte persone appartenenti a queste due categorie, la sera, guardando la metà vuota del letto, sentono una morsa stringergli il cuore. Certamente saprebbero apprezzare, meglio di tanti altri, gli immortali versi del poeta persiano Hafez: «Ringrazia Iddio per ogni notte che non hai dormito da solo». Di giorno, poi, s’arrangiano con fatica per affrontare al meglio gli impegni della famiglia, da soli, o secondo astruse formule giuridiche.
Ma c’è di peggio. Ed è quando, pur in compagnia, ci si trova su posizioni così diverse che le parole sembrano incapaci di colmare i vuoti. «Vedi cara, è difficile capire, è difficile spiegare, se non hai capito già», cantava il modenese Guccini. A volte questi vuoti portano all’incomunicabilità.
Come quando, pur tra persone sposate, in una famiglia che appare funzionare diligentemente, la comunicazione è tristemente ridotta a silenzi o a luoghi comuni che celano incomprensioni cementificate negli anni, sfiducie e rancori repressi, più deleteri dei litigi.
E poi, c’è ancora qualcosa di peggio dell’incomunicabilità. È quando la comunicazione diventa falsa e si rafforza in tal modo col passare degli anni, in un circolo vizioso: quando ci s’illude e si vuole illudere gli altri che un rapporto esista, mentre in realtà è cadavere da tempo, tenuto in piedi da vili convenzioni, sebbene indorate con un’aureola di nobiltà.
C’è anche chi si sente solo, e scarica la colpa sugli altri: «Nessuno mi capisce, nessuno mi vuole». La maggior parte delle volte ha proprio ragione: nessuno lo vuole. Ma una cara amica psicologa mi faceva notare: «Sai, quando qualcuno mi dice: “Quella persona non mi capisce, non mi vuole”, penso subito che sia lui o lei ad avere un problema. Perché la persona matura non s’interroga tanto su cosa gli altri fanno per lei, ma su quanto lei può fare per gli altri». È vero: se sei solo e nessuno ti vuole, puoi cercare tu gli altri e donare un po’ del calore della tua presenza.
C’è poi un ultimo tipo di solitudine. È quella più sostanziale, intimamente legata alla natura umana. La francese Madeleine Delbrêl scriveva: «In ognuno c’è qualcosa che non sarà mai compreso da nessuno. Questo qualcosa è la causa stessa della nostra solitudine, della solitudine che ci è connaturale. È questa solitudine rudimentale che dobbiamo accettare in primo luogo».
Di che cosa parlava? Di quella solitudine a cui nessuno può sfuggire, anche se a volte può sembrare spaventevole, che consiste nello stare faccia a faccia con sé stessi. C’è chi riesce ad affrontare sé stesso di sua spontanea volontà, con grande forza d’animo; la maggior parte delle persone però vi si trova costretta per le svariate circostanze della vita.
Sono quelli, momenti duri come l’acciaio ma preziosi come l’oro. Chi non riesce ad affrontare questo tipo di solitudine, non cresce ad autentica maturità. È una solitudine, questa, che non può essere colmata neppure con la passione per qualche arte o scienza o sport o vocazione; neppure con la più calorosa amicizia; neppure quando con lo sposo o la sposa s’è sperimentato cosa significhi essere una sola carne, e nella quotidianità si sono create intimità elettrizzanti, spontanee complicità gioiose.
Nonostante queste esperienze appaganti, ci s’accorge che s’arriva a un punto oltre il quale è impossibile procedere. S’avverte che è necessario, anzi doveroso, arrestarsi di fronte a un confine interiore dell’altro. Dietro cui si cela un mistero, di voragini di bassezze e di vette di purezze vertiginose. Ma inaccessibili agli altri.
È il confine che immette nel territorio della coscienza. La quale per i credenti – usando un’espressione di papa Paolo VI – è «lo spazio in cui avviene il colloquio intimo dell’anima con Dio». Colloquio a volte muto, balbettato, ma assolutamente determinante. Perché la coscienza è uno spazio strettamente personale, precluso all’altro, anche alla persona più vicina e più amata.
È il sigillo della solitudine, nostra e altrui. È come una catena di montagne, famigliare alla vista, ma irraggiungibile, che nella lontananza sfuma le sue più intime crudeltà e meraviglie in sagome imponenti o dolci, velate d’azzurro. Perché probabilmente il colore di questa solitudine essenziale, dalla quale non ci si può liberare, non è il tetro grigio e neppure il lugubre nero. Ma l’incantevole e sornione azzurro.