Il cipresso
Racconta un mito greco che il giovane Cyparisso, innamorato di un cervo divino, un giorno scoccò una freccia che, per errore, colpì a morte l’amato animale. Addolorato e inconsolabile, Cyparisso chiese allora ad Apollo di essere tramutato in albero. Da quel giorno il nome del giovane – che dal greco kyparissos divenne poi il latino cupressus – fu legato alla sorte del cipresso. Albero che ha singolarmente ispirato la religione, la letteratura e l’arte da tempi assai remoti fino ai giorni nostri. Tempi assai remoti, dicevamo. Il persiano Firdusi, nel poema epico Il libro dei Re narra che il profeta Zarathustra – divulgatore di una delle più antiche concezioni monoteiste – andò un giorno a predicare nel villaggio di Kashmar, nell’attuale Iran, e che, come ricordo della sua visita, piantò un cipresso. Gesto che aveva un valore prettamente simbolico. Il cipresso infatti, oltre ad essere uno degli ornamenti più belli del paesaggio iraniano, era considerato simbolo della verità. Forse perché con la sua punta aguzza svetta verso il cielo mentre le sue radici particolarmente profonde affondano nell’intimità della terra, conferendo l’idea di qualcosa di difficilmente afferrabile dall’uomo, com’è appunto la verità. Le leggende sul cipresso di Kashmar sono tante. Alcune narrano che le foglie dell’albero donassero l’intelligenza a chi le mangiava. Altre che il cipresso, la cui piantina era stata consegnata a Zarathustra direttamente dal dio Ahura Mazda, crebbe a dismisura in pochi giorni: tanto che il re locale fece costruire un’enorme sala dal tetto d’oro, dal pavimento d’argento e dal tetto d’ambra, per contenere il gigantesco albero. Si dice che il re si ritirò poi nella sala per vivere in meditazione; e che quando morì, dall’albero ascese direttamente in cielo. Si narra anche che durante l’invasione araba un califfo fece abbattere l’albero miracoloso per trasportarlo a Baghdad, ma che durante il viaggio di ritorno fu ucciso. Dalla remota antichità il cipresso fu considerato albero funebre, da collocare accanto alle tombe. Si credeva che, una volta tagliato, esso non potesse più ricrescere e diventò quindi simbolo della morte. Ci tramandano questa tradizione diversi autori latini: Virgilio nell’Eneide, ma anche Lucano, Ovidio, Servio. Oltre ad essere identificato con la morte, il cipresso fu pure considerato simbolo di immortalità, per la sua chioma sempre verde e per la sua estrema longevità. Gli antichi ritenevano il suo legno indistruttibile, così assurse anche a emblema di incorruttibilità: con esso, sia i fenici sia Alessandro Magno costruirono le loro flotte. Plinio lo elevava a simbolo della resistenza al decadimento, perché “il cipresso non risente né della malattia né della vecchiaia “. Considerato in Persia il primo albero del Paradiso, la sua chioma evocatrice della figura della fiamma adornava gli antichi templi degli adoratori del fuoco. Per il già citato Zarathustra esso era l’albero della vita, simbolo della potenza di Dio. La Bibbia racconta che il Signore indicò a Noè un bosco di kopher (cipressi) da cui ricavare il legno per costruire l’arca; e nel Siracide lo propone come emblema di dirittura morale: “come agile cipresso che in alto s’erige” e, per il suo mistico tendere al cielo, di trascendenza: “mi elevai come cipresso sul monte Sion”. I romani lo consideravano simbolo della vita e della fertilità: lo ponevano a guardia dei loro campi, giardini e vigne, e Plinio racconta che veniva piantato alla nascita di una figlia, per augurarle un buon marito. Secondo i miti ellenici, di cipresso erano fatte la freccia di Eros, lo scettro di Zeus e la mazza di Ercole. Era inoltre considerato albero sacro dedicato a Plutone, quindi simbolo della morte e della vita. Questa simbologia deve aver penetrato anche il cristianesimo, tanto che le prime porte delle basiliche furono fatte di legno di cipresso, a significare l’atto di varcare il confine con l’aldilà. Le porte della basilica di San Pietro, risalenti all’epoca di Costantino il Grande, erano costruite in cipresso e si conservarono in buono stato per ben due secoli. Ma il cipresso, oltre che simbolo, è anche una delle caratteristiche più familiari e suggestive del nostro paesaggio, specialmente quello toscano. Nobile e austero, lo si vede svettare contro l’orizzonte, qual “vigile sentinella sul poggio “. Elemento inconfondibile, s’ergeva a segnalare un limite poderale o rappresentava un punto di riferimento per il viandante. Pianta del raccoglimento, lo si trova al fianco di pievi, di cippi commemorativi, di casolari. Accanto ai cimiteri indica silenziosamente e perentoriamente il Cielo. In file ordinate lungo il viale, i cipressi accompagnano il rettilineo che dalla chiesetta di San Guido porta al paese di Lucia, nonna del poeta Carducci. Il quale li ha immortalati nella celebre poesia: “I cipressi che a Bolgheri alti e schietti/ van da San Guido in duplice filar/ quasi in corsa, giganti giovinetti/ mi balzarono incontro e mi guardar”. Immagine inquietante della tensione verso l’infinito, esso ha affascinato e allo stesso tempo ossessionato il pittore Van Gogh. In diversi quadri le linee dei cipressi sembrano riflettere le sue angosce, le sue ansie, in un turbinio di pennellate frenetiche, nelle quali la chioma dell’albero diventa una fiamma verde che s’erge, contorta e tormentata, verso un cielo che pare sordo e impenetrabile. Scriveva al fratello Théo in una lettera del 1889: “I cipressi mi preoccupano sempre, vorrei farne una cosa come le tele dei girasoli, perché mi stupisce che non li abbiano ancora fatti come li vedo io. Un cipresso è bello, in quanto a linee e a proporzioni, come un obelisco egiziano. E il verde è di una qualità così raffinata ( ). Bisogna vederli qui, contro il blu, nel blu, per meglio dire”. Nel blu, il cipresso, simbolo ambiguo – allo stesso tempo della morte e della vita – sembra voler sottolineare che il confine fra i due mondi è più labile di quanto a volte possa sembrare. Costringendo ad alzare lo sguardo verso il Cielo, per ammirare il suo svettante vertice, pare indicare che la vita non può finire tutta qui.