Il cinema guarda le persone

Escono film introspettivi di notevole valore, pur in contesti diversi. Da "Il processo Goldman" a "I dannati". Da non perdere.
Il regista Roberto Minervini (al centro) e gli attori Jeremiah Knupp (a sinistra) e Rene Wachner-Solomon durante il 77° Festival del cinema di Cannes, Francia, 16 maggio 2024. Foto: EPA/SEBASTIEN NOGIER via Ansa

L’aula di un tribunale è l’unica scena e l’unico ambiente dove Pierre Goldman, ebreo militante di estrema sinistra, accusato di aver ucciso due persone durante una rapina, vive nelle due ore del film diretto con eccezionale sintesi da Cédric Kahn. L’uomo cupo, che si dichiara innocente “perché è innocente” senza fornire spiegazioni, che si difende da sé suicidandosi come lo ammonisce il suo avvocato, è passionale, determinato, ed intransigente. Accusa la polizia di razzismo, fa la star perché ha pubblicato un libro di successo e la stampa è con lui, ma è il peggior nemico di sé stesso in quei difficili anni Settanta in Francia. Verrà assolto, ma sarà ucciso poco dopo in circostanze misteriose.

È nell’abilità dialettica che si svolge il racconto, nella forza delle parole dell’accusa, della difesa, di Goldman stesso che usa quest’arma e il suo volto espressivo per difendersi, accusare, implacabile, nervoso, come volesse morire. In realtà, Goldman viene da un passato durissimo, suo e della sua stirpe, con un padre che ha il coraggio pubblicamente di chiedergli perdono: è diventato violento, Pierre, e attende la morte. In fondo il processo non è solo a Goldman ma all’Europa antisemita, alla giustizia umana che si crede perfetta e non lo è, non lo può essere, perciò Pierre l’accusa con furia. L’unica arma che gli resta è la parola: può uccidere, come nei testimoni che si contraddicono o nella pubblica accusa, può salvare. In ogni caso, Goldman si erge come superiore alla giustizia umana, grazie al suo rabbioso dolore, ed è il fascino inquietante di questo processo ad una intera società più che ad un singolo uomo.

Sintetico, scavato è il film I dannati di Roberto Minervini, marchigiano da anni negli Usa, presente a Cannes. Siamo in piena Guerra di Secessione nel 1862. L’esercito invia un gruppo di volontari ad esplorare terre mai viste, non mappate, insomma l’ignoto. Il film, girato nel Montana, si snoda per quadri tra nevicate, lupi, attacchi improvvisi di nemici invisibili, paura, sospensione, ricordi, sogni.

Ricorda sotto alcuni aspetti l’atmosfera di attesa del nemico invisibile nel film Il deserto dei Tartari. Nel frattempo,  gli uomini si conoscono, conversano, c’è un sedicenne, un uomo maturo, un padre religioso che cita la bibbia… Le domande, dopo silenzi lunghissimi all’inizio, dove vediamo gli uomini mangiare, cavalcare, fare la guardia, giocare a carte dentro un paesaggio misterioso, sono profonde. Perché se Dio ha detto di non uccidere noi invece lo facciamo? Perché Dio permette il male e il dolore, ci sarà forse qualcosa dopo la morte ed oltre la guerra? Perché ci si combatte fra persone che nemmeno si conoscono?

Domande forti, molto attuali. Il ragazzo che sogna la gloria, la famiglia, che ha degli ideali si scontra con la realtà. Tutti cercano una pace e vagano smarriti fra le rocce sempre più isolati in un percorso che li porta ad una cima innevata, dove forse lassù in alto, si trova la pace. Essenziale, fotografato con poesia silenziosa, è un racconto che affascina e scuote, breve e non consolatorio, in mezzo alla natura, in cerca di risposte.

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