Il cinema delle vittime

Da Fai bei sogni di Bellocchio ad Agnus Dei della francesce Anne Fontaine fino a La ragazza del mondo di Marco Danieli, il racconto di un orfanezza considerata non solo come una piaga ma un tragitto di maturazione, una scelta di vivere liberamente la propria esistenza, andando oltre il dolore
film agnus dei

Da sempre, verrebbe da dire, i l cinema si è soffermato sulla sofferenza umana. In particolare quella degli innocenti. Ed è interessante che vi ritorni periodicamente, sia narrando storie di guerra che raccontando vicende familiari.

Il sentimento che prevale, in alcuni lavori recenti, è quello dell’orfanezza. Orfani dei genitori, orfani di una scelta, orfani di libertà.

Nel 2013 il polacco Ida  di Pawel Pawlikowski ha vinto l’Oscar per il miglior  film straniero. Raccontava  la storia di una giovane orfana allevata in un convento che, prima dei voti, vuol conoscere una sua parente, e scopre di essere ebrea.

Una vicenda dell’immediato dopoguerra, come ce ne sono tante. Eppure, in Polonia è ancor oggi difficile scoprire storie  di dolore perché tutto viene tenuto nascosto, forse per non soffrire di nuovo e di più.

Se n’ è accorta la regista francese Anne Fontaine che  ha diretto il film Agnus Dei – il titolo francese è migliore, ”Les Innocentes” -, in uscita il 17 novembre. Si tratta di un crudele episodio rimosso dalla gente e nascosto dagli storici: un gruppo di soldati sovietici violenta le suore di un convento, che restano incinte. Una giovane suora coraggiosamente coinvolge Mathilde,  medico francese della Croce Rossa, atea e comunista, per portare aiuto nascostamente alle consorelle. Gli ostacoli sono molti: dalla rigidità della superiora, al terrore  delle suore di infrangere  il voto di castità, al senso di orfanezza e di lontananza di Dio, al destino dei bambini che nasceranno.

Tutto si svolge nel 1945, in un inverno della natura e dell’anima, tra dialoghi serrati, sospensioni e necessità di nuove scelte. Il dramma assurge ad una dimensione universale perché non si tratta solo di un episodio violento -come molti altri che ci sono stati e ci sono tuttora in guerra – ma del sentimento di sentirsi orfani di Dio e degli uomini,  precipitati in una vita che ora  veramente conosce il dubbio, la paura, la depressione di fronte all’irrazionalità del dolore e alla cattiveria umana. Eppure, né il medico né la giovane suora coraggiosa perdono la speranza, perché la vita che nasce è più forte della morte.

Un film che fa pensare e discutere e capta meglio di molti altri i sentimenti più intimi del mondo dei religiosi, ma  anche di coloro che operano per il bene dell’uomo, come i medici di fronte al dramma della violenza. Diretto con rara delicatezza e profondità, e interpretato  da Lou de Laage e un gruppo di grandi attrici polacche.

Dall’orfanezza di una scelta e di uno stile di vita, dettata dalla crudeltà umana, alla  perdita della madre:  dramma senza  fine per i l giornalista affermato Massimo (Valerio Mastandrea) nell’ultimo film di Marco Bellocchio, Fai bei sogni, tratto dal romanzo di  Massimo Gramellini. L’uomo, un quarantenne solitario  e irrisolto, si abbandona ai ricordi dell’infanzia, veri  flashback che anziché consolarlo, l o tormentano, tanto più che solo  dopo molto tempo scoprirà la vera causa della morte della madre. Intorno, gli gira il mondo della fine del ‘900, tra reportage  di guerra in Serbia, cortei operai,  la musica, i colleghi del giornale – dal direttore agli invidiosi –, una simpatia femminile che cerca di sbloccarlo, facendolo scatenare nel ballo. Ma nulla toglie  all’uomo il sentimento, o meglio il desiderio di ritrovare quell’affetto  materno che gli manca terribilmente.

 

Bellocchio rivisita i suoi temi noti: l’assenza paterna, il bisogno della madre, la religione, la società che avanza e li racconta in u n film fatto spesso di silenzi lunghi, di sguardi persi, di smarrimento e di necessità di risposte al grande problema del dolore  che ci toglie la felicità.

In questi silenzi è la parte forse migliore del film: anche negli occhi incerti di Mastandrea, in quelli vaganti del vecchio prete (Roberto Herlitzka) che sveglia  il ragazzino alla vita,  in quelli dolci dell’amica Elisa ( Bérénice Bejo).

Quante domande, e quanto dolore, anche  personale del regista.

Chi ha provato da piccolo l’orfanezza, ne resta segnato per sempre. Anche se uno spiraglio di pace si può aprire, pare dire Bellocchio ad un certo momento.

A volte  può esser la famiglia stessa che ti fa sentire orfano.

Lo dice i l film di Marco Danieli, premiato a Venezia nella sezione Orizzonti, La Ragazza del mondo. Per la prima volta un film racconta, con rispetto – ma anche con uno sguardo riflessivo sui pericoli di una esperienza religiosa chiusa in sé stessa -, quel che succede in una famiglia di Testimoni di Geova, a Roma, quando Giulia (Sara Serraiocco), studentessa di valore, fedele al suo credo e perciò derisa dalle compagne, incontra Libero (Michele Riondino)  giovane spacciatore  uscito dal carcere. Nonostante  le pressioni familiari, fra i due scoppia l’amore ed una vita diversa, libera da schemi mentali rigidi. La famiglia e la comunità  rigettano Giulia, che si trova orfana di tutti, e  presto anche di Libero, ma non demorde.

Una volta tanto, l’orfanezza non è una piaga snervante e deprimente, ma porta ad una maturazione umana, alla scelta di vivere liberamente la propria esistenza, andando oltre il dolore.

Per un confronto, sarebbe utile rivedere il film Parola di Dio  – uscito ad ottobre – del regista Kirill Serebrennikov su un giovane russo di oggi, deriso in classe, ma fanaticamente preso dalla bibbia che interpreta  letteralmente, arrivando alla violenza e a decidersi per una orfanezza vissuta e voluta, dai risvolti inquietanti.

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