Il cinema del dialogo fra le religioni
La proiezione di “Queen” ha aperto ufficialmente il concorso cinematografico e quindi la carrellata dei 52 film selezionati tra circa 250 iscrizioni, provenienti da una ventina di Paesi di tutti i continenti. Tra questi la giuria internazionale, la giuria SIGNIS (World Catholic Association for Communication), e le giurie speciali del Festival sceglieranno le pellicole vincitrici nelle diverse sezioni. Katia Malatesta, direttrice del film festival Religion Today, spiega impostazione, obiettivi e prospettive del progetto.
Quale la novità dell’edizione Religion Today 2013?
«Ci si muove tra fedeltà all’idea originaria e ricerca di cambiamento, indispensabile per mantenere viva e vitale una manifestazione. Così è per l’Edizione 2013. È infatti importante per noi mantenere inalterato il cuore del festival, i suoi valori: il doppio binario di spazio cinematografico e di laboratorio di convivenza per una cultura del dialogo e della pace. Ma è altrettanto importatne che il nome Religion Today resti convincente nel tempo.
Quindi l’aspirazione è quella di rappresentare attraverso il cinema la complessità del fenomeno religioso a tutte le latitudini in rapporto stretto con le istanze dell’attualità. Per cui il festival si pone come un contenitore di riflessioni che riguardano la nostra vita che cambia giorno per giorno, andando a cercare film e tematiche che fotografano ciò che accade in Italia e nel mondo. E in questo processo il fattore religioso è strategico come chiave interpretativa dei cambiamenti».
Quale il film che sceglierebbe tra quelli in concorso?
«È una domanda che mette un po’ a disagio. Abbiamo infatti selezionato 52 film di valore tra 250 iscrizioni. Per questo, più che citare un singolo film, mi piacerebbe riferirmi al “filo rosso” che si riscontra in tutta l’edizione per l’attenzione al tema della pace e alla risoluzione non violenta dei conflitti: un legame con la dialettica tra “realtà e utopia”, tema di questa edizione.
Tra i film sia a soggetto che documentari, che trattano il tema in modi estremamente originali e inaspettati, uno viene dall’Iran (Queen, Mohammad Ali Basheh Ahangar, Iran, 2012). Rappresenta il conflitto Iran-Iraq, uno dei più tragici e sanguinosi dello scorcio del ‘900. La pellicola prova a superare completamente la logica della disumanizzazione del nemico, prevalente in tanta cinematografia iraniana, che ha segnato l’immaginario collettivo. Queen rappresenta un modo diverso di guardare alla guerra e alla pace».
La città di Trento in questi gironi s’identifica in certo modo con il festival di RT. Avete creato tante sinergie con molte realtà della città…
«Questo legame è vitale per noi. Sempre di più vogliamo che ogni film possa essere accompagnato dalla presentazione di un esperto. Abbiamo perciò attivato collaborazioni con soggetti diversi, dall’ufficio diocesano per l’ecumenismo ed il dialogo interreligioso, al Forum trentino per la pace e diritti umani, al consiglio parità della provincia autonoma di Trento, alla comunità Nuovi orizzonti che insieme hanno espresso una giuria speciale.
Una novità di quest’anno è che il “Laboratorio di convivenza internazionale” tra registi e operatori si terrà al centro Mariapoli del Movimento dei focolari nelle mattine dal 16 al 18 ottobre. Ci tengo a sottolinearlo perché crediamo che per il festival sia occasione di affinare i propri obiettivi sul dialogo interreligioso a contatto con la grande esperienza dei Focolari che sono specializzati in questo campo ».
Quali le prospettive di quest’edizione di RT?
«Credo che gli obiettivi riguardino la partecipazione di diversi tipi di pubblico, con attenzione alle cosiddette fasce deboli. Da diversi anni cerchiamo di intensificare il lavoro con le scuole, e quindi con il pubblico più giovane, che coinvolgiamo in tante esperienze diverse come la redazione del magazine del Festival. Abbiamo anche attivato una collaborazione con diverse cooperative che si occupano di disagio sociale, a partire sempre dalle proposte cinematografiche, in modo da sensibilizzare il pubblico alle problematiche delle persone senza tetto, della valorizzazione degli anziani, ecc. Non si tratta tanto di presentare un’emergenza quanto di capire come tali persone rappresentino una risorsa.
Per RT è essenziale che il pubblico possa vivere la sala come luogo dove apprendere, con una partecipazione attiva e ponendo domande agli esperti presenti.
Inoltre ci prefiggiamo di raggiungere il “pubblico che non c’è”, quello potenziale, andando a trovarlo là dove è più difficile: una scelta che orienterà il nostro lavoro dei prossimi anni.
Stiamo ragionando già sui temi delle prossime edizioni. Riteniamo vincente la prospettiva di combinare la riflessione specificamente religiosa, caratteristica del festival, con l’apertura civile che rende possibile in sala un dialogo tra credenti, non credenti e diversamente credenti. Pensiamo infatti che il fenomeno religioso, nella sua pluralità e complessità, vada oggi al di là dell’interesse di un pubblico di nicchia e stia diventando fattore cruciale per la crescita della società nel suo insieme».