Il cielo è sceso a Molokai

Quarto episodio della vita di padre Damiano De Veuster, missionario, portatore di speranza tra i lebbrosi, canonizzato l'11 ottobre.

 Per strada, nel viaggio di ritorno, s’era sfogato anche lui, con un bel pianto, il «duro», l’«insensibile» Francesco De Veuster, ma, prima di rimetter piede a «La Ninde», s’era fatto sparire dagli occhi ogni traccia di commozione e aveva atteso che si sciogliesse del tutto quel nodo che gli serrava la gola.

L’Anna Caterina non fu da tanto, poveretta. Quando seppe di Jef, della sua improvvisa decisione di restare a Lovanio, del suo rifiuto di far un salto a casa a dirle addio, s’abbandonò alla disperazione, perdutamente, per giorni e notti.

A Lovanio, intanto, Jef era al settimo cielo, come rapito in un sogno di paradiso.

Ma a rompere quell’incantesimo e a riportarlo coi piedi sulla terra, ci fu una chiamata del superiore: era stato ammesso nella «Congregazione dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria e dell’adorazione perpetua del santissimo Sacramento dell’altare», e va bene; ma non si facesse illusioni di poter aspirare al sacerdozio. Impossibile: non sapeva il latino! Sarebbe stato istruito come «cooperatore»… Fratel converso, insomma.

A questo punto, di scrivere – come e stato scritto da altri – che tale comunicazione non turbò affatto il nostro Jef, «indegno come si reputava del sacerdozio», non me la sento proprio.

Può darsi davvero – come vuole qualche suo biografo – che Jef abbia risposto al superiore ch’era già una grande fortuna per lui abitare nella casa di Dio; ma questa frase – se veramente la disse – può averla detta benissimo nello sforzo di reagire alla delusione patita; il che, penso, non toglie nulla a quello che vien presentato come un suo splendido atto di umilia, anzi lo impreziosisce della sofferenza che gli costò.

E resta il fatto – per me assai eloquente – che Jef, uscito da quel colloquio, la prima cosa che decise, fu quella di farsi dar lezioni di latino da suo fratello Panfilo. E questo significa, mi pare, che, pur accettando in obbedienza e umiltà la soluzione che gli era stata prospettata, egli s’adoperò nel contempo, con tutta la forza di volontà di cui era capace – ed era tanta! –, a favorire un possibile ripensamento del superiore.

E il ripensamento venne davvero, quando – appena sei mesi dopo aver cominciato a balbettare rosa, rosae – Jef già sapeva tradurre a menadito qualsiasi pagina del Cornelio Nepote; sicché fu ammesso, in seguito, a un esame di latino, che superò brillantemente; e quell’esame gli aprì la strada del sacerdozio.

Intanto, alla cerimonia della vestizione, un anno dopo la sua entrata nei «Picpus», ricevette il nome di Damiano.

Nel luglio del 1860 fratel Damiano fu mandato in Francia, a Issy, a trascorrervi gli ultimi mesi di noviziato. Fu in questo periodo che, per chiari sintomi, la passione missionaria cominciò a bruciargli dentro.

C’era, nella tribuna della cappella di quell’istituto, e precisamente nel vano d’una finestra murata, un’immagine di san Francesco Saverio col crocifisso in pugno sullo sfondo d’un paesaggio indiano. Bene, non passava giorno – ricorderà il padre Caprais, direttore del noviziato – che, alla stessa ora fratel Damiano non s’inginocchiasse sotto quell’immagine. Una volta gliene chiese ragione, e quegli rispose che supplicava il Signore, per la intercessione dell’apostolo delle Indie, d’essere un giorno mandato pure lui in missione.

Del resto, quella del missionario, era una vocazione che si respirava nell’aria, lì dentro, e in tutta la Congregazione dei Sacri Cuori; la quale, fondata a Poitiers dall’abate Pierre Coudrin a scopi educativi, s’era vista affidare fin dal 1825 l’evangelizzazione delle Hawai, e dal 1833 quella di tutta l’Oceania orientale, mentre essa aveva già stabilito di sua iniziativa una procura a Valparaiso, per estendere poi i propri istituti sia nel Cile che nel Perù.

Con questa disposizione d’animo, tesa a solcare al più presto gli oceani, il 7 ottobre di quello stesso 1860, fratel Damiano De Veuster, disteso per terra ai piedi dell’altare e, come vuole la regola, ricoperto di una coltrice funebre, faceva la sua solenne professione religiosa usque ad mortem.

Intanto, però, fu mandato a Parigi, presso la casa generalizia, a completare gli studi di latino e a intraprendere quelli di greco e di filosofia.

Sulle prime la Ville lumière lo affascinò potentemente, trascinandolo per tutte le ore delle passeggiate settimanali da Montparnasse agli Champs Elysées, da Notre Dame al Louvre e all’Opera, da Place de la Concorde ai giardini delle Touileries, dal Quartiere Latino a St.-Germain; ma ben presto ne ebbe abbastanza, e ai Grands Boulevards preferì i grandi boschi fuori città. E la campagna. Soprattutto la campagna, che gli riempiva il cuore dei ricordi di «La Ninde» e di mamma Caterina.

Comunque, da Parigi, quello che si portò via maggiormente impresso, quando fu rispedito a Lovanio, fu il volto importante d’un uomo, d’un vescovo, il vescovo di Tahiti monsignor Tepano Jaussen, anch’egli dei «Picpus», il quale, visitando la casa generalizia, aveva saputo parlare in modo così avvincente delle missioni nel Pacifico e delle loro urgenti, immense necessità, che il nostro fratel Damiano non aveva saputo far a meno di scriverne a casa, a papa e mamma, e di farli partecipi del suo desiderio di partire.

A Lovanio gli toccò studiare teologia in quella celebre università cattolica; e qui vennero a galla – soprattutto nel raffronto diretto coi condiscepoli, – le varie deficienze della sua cultura, per molti versi abborracciata, approssimativa e lacunosa.

Di regolare, in fondo, per Jef, c’era stata solo l’istruzione elementare, dai sette ai tredici anni. Poi, come si sa, per quattro anni aveva lavorato di muscoli, da contadino. Successivamente, al collegio di Braine-le-Comte papà Francesco l’aveva mandato soltanto a imparare il francese, non a seguire i corsi di scuola media, che infatti Jef non aveva seguito. Quindi il latino se l’era studiato praticamente da sé. Solo dopo i vent’anni quando gli si era riaperta la prospettiva concreta di diventare sacerdote, la sua istruzione aveva trovato un certo inquadramento; ma è chiaro che, in una cultura complessivamente così farraginosa com’era la sua, molti vuoti eran rimasti aperti, e quindi, ora, gli studi superiori, in quel po’ po’ d’università, ne risentivano parecchio.

Non c’era che una cosa da fare: rimediare a quei vuoti, colmandoli. Facile a dirsi: ma a farsi?

Fratel Damiano s’impuntò nell’impresa, per quanto disperata potesse apparirgli. E si buttò a studiare quant’è possibile studiare, serrando i denti com’era suo stile, e cercando nel contempo di non perdere la serenità.

E se, talvolta, all’ironia di qualche compagno finiva col rispondere con una certa violenza (correndo, peraltro, subito dopo a chiedergli perdono) beh, dobbiamo tener presente che quel suo caratterino selvatico e turbolento, che già gli abbiamo conosciuto a «La Ninde» e dintorni, aveva ancor bisogno di briglia e di morso.

Venne il giorno dell’ordinazione di padre Panfilo, e fratel Damiano, invitato, dopo la cerimonia in chiesa, alla festicciola di prammatica, raggiante di felicità si presentò al fratello e ai convitati con una tasca vistosamente rigonfia di chissà che cosa. Lo si seppe alla fine dei discorsi celebrativi, quand’egli, alzatesi in piedi, cominciò a cavar fuori da quella saccoccia, come da un pozzo di san Patrizio, una sfilza di scapolari che non finiva mai. Per quanto sorpreso, padre Venceslao, il superiore, accondiscese a benedirli, e allora Damiano passò da un invitato all’altro, offrendo a ciascuno un «abitino» perché se lo appendesse al collo in ricordo di suo fratello sacerdote. Per quanti risolini ci fossero in giro, a quell’ingenua richiesta, la gioia di quel ragazzo era d’un candore così toccante, che nessuno degli ospiti osò turbarla con un rifiuto.

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