Il cibo degli dei

Nata nel Centro America, la cioccolata calda ha ammaliato il mondo. Dal cacao alla nutella, una storia golosa e contagiosa.
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Sul monte Olimpo, alla corte degli dèi, si beveva l’ambrosia. La mesceva dal suo vaso d’oro Ganimede, il coppiere di quel banchetto d’immortali. Nessun umano, però, è mai venuto in possesso della ricetta di questa bevanda ritenuta prelibata, tanto che oggi il nome “ambrosia” è solamente associato ai fastidi dell’allergia che provoca il polline di questa pianta: ne sa qualcosa chi, nel bel mezzo dell’estate, inizia a stropicciarsi gli occhi, a starnutire, a tossire o dibattersi con i tormenti della rinite allergica.

Più felice è stata invece la scelta degli dèi del Centro America, che scelsero come bevanda per i loro sublimi convitti il cioccolato, ed ebbero pure il buon gusto di condividere la loro scelta con i mortali.

Così mentre l’Europa, fino alla metà del Cinquecento, non sapeva neppure che cosa fosse il cioccolato, la popolazione degli olmechi, una delle più antiche delle Americhe, già più di tre millenni fa faceva ampio uso di questo alimento derivato dai semi della pianta che nella loro lingua si pronunciava kakawa, cioè cacao.

Successivamente, anche la celebre civiltà dei maya lasciò molte tracce dell’ampio uso del cioccolato. Nella civiltà azteca il cioccolato acquistò grande importanza oltre che come bevanda, moneta e merce di scambio, anche come simbolo del sangue umano nei rituali religiosi.

Queste popolazioni amavano preparare la bevanda di cacao mescolandola con acqua calda. Acqua si diceva nella loro lingua haa, caldo chacau. La bevanda prese perciò il nome di chacauhaa. Con un po’ di salti linguistici si arrivò a chocolhaa, termine che piacque ai conquistatori spagnoli che lo trasformarono poi in chocolate.

Ignoriamo il nome di quel geniale o fortunato indio messicano che riuscì a trasformare il chicco di cacao nel “cibo degli dei”. Ma si sa, delle cose più piacevoli di cui gode l’umanità – come il vino, ad esempio – non si conosce il nome dell’inventore e non se ne celebra il ricordo con statue e monumenti.

 

In Europa il cioccolato arrivò con Cortes, che l’introdusse in Spagna alla corte dell’imperatore Carlo V. Dalle terre d’oltre Oceano arrivavano verdetti contrastanti. José de Acosta, un missionario gesuita spagnolo che visse in Messico in quell’epoca, mandava questo resoconto: «Disgustoso per coloro che non lo conoscono, con una schiuma o pellicola in superficie che è molto sgradevole al gusto. Tuttavia è una bevanda molto apprezzata dagli indiani, che la usano per onorare i nobili che attraversano il loro Paese. Gli spagnoli, sia uomini che donne, che si sono abituati al Paese, sono molto golosi di questo chocolaté. Dicono di prepararne diversi tipi, caldi, freddi, tiepidi, e di aggiungervi molto pepe o chili; ne fanno inoltre una pasta che dicono essere buona per lo stomaco e contro il catarro».

Nonostante questa pubblicità non troppo positiva, il successo del cioccolato alla corte di Spagna fu immediato. Con alcune precisazioni, però. Quando oggi pensiamo al cioccolato, ci viene in mente una forma solida e dolce. Eppure fino al 1521 (anno in cui i conquistadores spianarono la capitale azteca) e per quasi due secoli dopo, il cioccolato si beveva e non si mangiava. Ed inoltre, la nuova bevanda amara calda, per i suoi già citati effetti benefici, era considerata un farmaco, alla stessa stregua dei rimedi galenici dell’epoca.

Ben presto, però, la bevanda amara di cioccolato fu zuccherata; dalla Spagna passò a Firenze e da quell’incantevole città rinascimentale si diffuse in tutte le corti europee, consumata come una prelibatezza da aristocratici, nobili ed ecclesiastici.

Con la rivoluzione industriale, il cacao divenne solido e fu prodotto sotto forma di pasticcini, pastiglie o barrette. Da quel momento l’affermazione del cioccolato come alimento solido eclissò per sempre l’antenata bevanda, che era stata centellinata sorso dopo sorso per migliaia d’anni.

Grandi nomi si legarono così alla storia del cioccolato: lo svizzero Daniel Peter produsse per primo il cioccolato al latte aiutato da un tale Henrì Nestlè; poi Rudolph Lindt, che inventò il processo chiamato “concaggio”, che consiste nel mantenere a lungo rimescolato il cioccolato fuso per assicurarsi che la miscelazione sia omogenea.

Fino a Pietro Ferrero, che nel 1946 inventò una crema di cioccolato e nocciole con l’intenzione di venderne qualche chilo ai pasticcieri della sua città, Alba: era nata la Nutella (come non essergli riconoscente!). Proprio ad Alba, patria della Ferrero, si è tenuta recentemente l’interessante mostra: “Il cioccolato. Dai maya al XX secolo”.

Ma non solo gli aristocratici furono contagiati dal cioccolato. Anche molti artisti ed esponenti della cultura cedettero al suo sapore: Mozart mise in note il suo amore per la cioccolata in Così fan tutte. La elogiarono Manzoni, Goethe, Stendhal; Voltaire ne usava in quantità industriali per combattere gli acciacchi dell’età; ed anche l’inflessibile papa Pio V consentì nei periodi di digiuno la consumazione d’una tazza di cioccolata al giorno, dando come giustificazione il fatto che è liquida. Provocando però qualche perplessità tra i più austeri membri della curia.

 

Si sa, c’è proprio un legame – anche se non proprio lineare, ma molto stretto – tra cibo e amore. Già nel giardino dell’Eden, Eva offrì ad Adamo un frutto succoso e appetitoso da mangiare, non un mazzo di profumate violette.

E se è vero che chi è innamorato a volte trascura il cibo, ben si sa che spesso, per compensare un amore infelice, per soddisfare la frustrata esigenza di coccole, si ricorre al classico rimedio della cioccolata. Essa infatti, dicono gli studiosi, contiene la feniletilamina, una sostanza chimica che provoca accelerazione del battito cardiaco e aumento delle energie del corpo: la stessa sostanza che viene prodotta dal cervello quando ci si innamora. Un sostituto d’eccezione, insomma!

Una leggenda azteca narra che una principessa fu lasciata a custodire un immenso tesoro dal suo sposo che partì per la guerra. Quando arrivarono i nemici, la principessa non rivelò il nascondiglio del tesoro e fu così uccisa. Dal suo sangue nacque però la pianta del cacao: i cui semi sono amari come la sofferenza che provò la principessa, forti come la virtù di quella donna ed eccitanti come la passione che ella provava per il suo sposo.

A quella virtuosa donna leggendaria – reale e determinante, come tutte le cose invisibili, insondabili ed apparentemente inutili – la nostra più viva riconoscenza (e credo d’interpretare il parere di tanti lettori).
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