Il cedro è forza e nobiltà
Èa bordo di una vecchissima – mi vien da dire antica – Dodge americana da più di un milione di chilometri, lunga come un’autostrada ma tarlata persino nel pianale, che mi avvio da Damasco verso Beirut, la meta forse più importante nell’attualità politica, religiosa e sociale del Vicino oriente. Stamattina c’è stato un attentato nel sud del paese, che ha fatto un paio di morti. Due giorni fa ce n’era stato un altro, dimostrativo, a Beirut. C’è chi accusa i servizi segreti siriani e chi, al contrario, americani e israeliani. Di questi tempi – grosso modo dalla caduta di Saddam e dalla morte di Assad padre – gli equilibri nella regione sono saltati per aria, e non ce ne sono ancora di nuovi. I tentativi occidentali di democratizzare la regione, usando metodi più o meno condivisibili e condivisi, non sono ancora arrivati a buon fine e non si sa se avranno successo. Un raggio di sole illumina la valle della Bekaa: laggiù brilla un verde biblico, mentre alla frontiera piove e si nota ancora qualche movimento di truppe siriane. E poi, oltre la valle, ecco che il mare s’avvicina. Beirut dista 25 chilometri. Valli e forre e picchi, un certo benessere, le bandiere del cedro esposte ovunque, minareti e campanili che giocano a nascondino (cioè a nascondersi reciprocamente), l’anarchia urbanistica, una discesa vertiginosa verso la benedizione della costa. Bienvenue au Liban! Piazza della libertà Dopo le manifestazioni oceaniche di marzo, mi aspettavo di trovare una città in piazza. Ma le ultime bombe hanno gettato la popolazione in una costernazione ravvivata dalla paura che si riaccenda la spirale della guerra civile. I palazzi del centro della città, che per lunghi anni erano stati teatro di incredibili sparatorie, ormai sono restaurati in modo egregio proprio dal martire del momento, l’ex primo ministro Rafiq Hariri, mantenendo in qualche modo la traccia dell’impatto delle pallottole sulla pietra, a futura memoria. Passo dinanzi alla sede della società Solider, fondata dallo stesso Hariri per ricostruire il centro di Beirut. Un’impresa da miliardi di dollari, che non va esente da critiche, per i modi di funzionamento che hanno lasciato al loro passaggio brandelli di corruzioni e di amicizie interessate. Hariri non era un santo. Perché allora questa venerazione? Nella vastissima Piazza dei martiri, dal 14 febbraio ribattezzata Piazza della libertà, si trovano reperti archeologici, sedi bancarie luccicanti e una vastissima moschea in costruzione, voluta proprio da Hariri, che tante reazioni aveva suscitato perché oscurava la cattedrale cattolica di Saint-Georges. Prima di morire, sentendo il profumo della riconciliazione nazionale, l’ex-premier aveva così acconsentito alla costruzione di una torre campanaria della vicina cattedrale, purché avesse la stessa identica altezza dei quattro minareti. Ai piedi della moschea, ecco l’improvvisato mausoleo di Hariri, sotto un gazebo candido. Fiori a profusione, decine di gigantografie, lumini e ceri d’ogni foggia e dimensione, cristiani e musulmani. Quest’uomo ha ottenuto l’unanimità, o quasi, dei giudizi post mortem: una canonizzazione postuma, verrebbe da dire, o piuttosto una morte che ha catalizzato e accelerato il corso della storia. Si vedrà nei prossimi mesi. In tutti i modi, i ritratti di Rafiq Hariri sono ora esposti ovunque in Libano, salvo forse nel sud sciita pro-siriano. Incrocio un deputato della squadra politica di Hariri. Che volete? La verità sull’attentato, la dimissione dei responsabili dei servizi segreti, la partenza dei siriani. Fino a sei mesi fa eravate al governo coi siriani… Voltafaccia? No, Hariri era al governo come uomo di dialogo, non ha detto mai una parola contro la Siria, ma nemmeno contro chicchessia. Ha operato per un Libano unito e libero. E questo ha dato fastidio ai vicini e ai loro servizi segreti. Poco distante ecco che, ai piedi della statua dei martiri dell’indipendenza del Libano, è stata eretta una tendopoli, ben protetta dalla polizia e da transenne assai controllate, nella quale dal giorno dell’attentato ad Hariri si sono trasferite alcune centinaia di giovani dell’opposizione, al grido di verità, una scritta che campeggia ovunque. Parlo con alcuni di loro, che evidentemente sono figli della frantumazione della politica libanese di tanti decenni, ma uniti dalla condanna dell’attentato e dalla speranza di una nuova libertà. E mi accorgo che il fatto nuovo è proprio questa vicinanza anche fisica tra i figli di gente che per decenni si era combattuta e ammazzata senza pietà. Una vicinanza che non ha nulla, o poco, di religioso, ma molto di politico e di nazionalista. Il Libano deve tornare ai libanesi… Fuori i siriani dalla terra che non è la loro… Siamo tutti uniti per un Libano coeso… Nessuno potrà dividerci… , mi dicono. L’idealismo si taglia a fette, la voglia di voltare pagina. A poche centinaia di metri, ecco il cratere dell’attentato, impressionante. L’umiltà dopo la guerra civile Per capire più a fondo il presente libanese – e quindi poter intravedere il futuro – intervisto alcune delle personalità più in vista del panorama politico del paese dei cedri. A cominciare da Ibrahim Shamseddine, nota personalità dai toni assai moderati, a capo di un movimento sciita di pensiero e di azione che propugna la tolleranza interreligiosa e la libertà per il Libano, nella collaborazione tra cristiani e musulmani sciiti, sunniti e drusi. Non ha dubbi: Il Libano deve rimettersi sulla via dell’unione, non ha scelta, se non infossarsi nel peggio; e questo cercando di isolare le perso- nalità che, da una parte e dall’altra, dalla parte delle forze al governo e di quelle all’opposizione, cercano di pescare nel torbido. Dicono che gli sciiti siano fuori dall’attuale movimento di consenso nazionale, ma non è vero. Non sono tutti per la presenza siriana in Libano. Anche noi vogliamo l’unità nazionale e la convivenza tra musulmani e cristiani. Samir Frangie, cristiano, è uomo politico tra i più conosciuti in Libano. Viene da una famiglia di politici del nord del paese. Non è parlamentare, e non ci tiene proprio ad esserlo. È l’eminenza grigia dell’opposizione, per la sua cultura e la sua calda umanità, passata attraverso l’impegno nella sinistra comunista, per poi tendere verso posizioni di centro assai interessanti e aperte. È continuamente intervistato dalle tivù di mezzo mondo, in particolare dalle televisioni satellitari arabe. Rafiq Hariri – mi spiega – ha giocato il ruolo di vittima sacrificale: avendo conosciuto nel recente passato troppa violenza, che definirei assoluta, il paese aveva bisogno di una vittima per tutti. Se un non-violento come lui è stato ammazzato con tale barbarie, vuol dire che era migliore di quanto si pensasse, dice la gente. E le continue commemorazioni mediatiche fanno credere che il suo spirito sia ancora vivo, e contribuisca in modo quasi mistico alla rifondazione attuale della società: che più di un milione di persone scenda in piazza, non è più un fenomeno politico, ma sociale. La gente non vuol più la guerra: Persino con Hezbollah – continua Frangie – le relazioni sono ormai diverse, e cresce una certa reciproca legittimazione. Non possiamo ricominciare a combatterci, ora che la paura del siriano si è dissolta in poche ore, e che l’opposizione è veramente unita nel chiedere un nuovo Libano. Libano che non si farà senza gli sciiti, è chiaro. Ora siamo attesi dalla prova elettorale, speriamo in maggio, che darà consistenza parlamentare all’opposizione, che ormai è diventata maggioranza assoluta. L’appartamento di Ghada el-Yafi, musulmana sunnita è situato in un palazzo che si vorrebbe di standing, e lo sarebbe, se non fosse che porta ancora le tracce delle battaglie che si svolsero in quel quartiere in occasione della guerra civile. Medico, da qualche anno Ghada el-Yafi è scesa nell’agone politico da lei già conosciuto, visto che il padre Abdallah, compianto primo ministro del Libano, fu colui che firmò per il suo paese la dichiarazione di fondazione delle Nazioni Unite, nel 1948. Anche per lei non esistono differenze tra le re- ligioni tali da giustificare conflitti. Voglio però che il nostro paese resti laico. E cita il Corano: Nessuno può forzare un altro a seguire la propria religione . Va controcorrente, Ghada el-Yafi: Il 14 marzo non sono scesa in piazza della libertà. Voglio la libertà come tutti i libanesi, ma non sono nemmeno con l’opposizione, perché sono le stesse persone che qualche mese fa erano nel governo pro-siriano. Voglio una vera democrazia, non l’imposizione delle proprie visioni. Ho il timore che l’attuale movimento di massa sia manipolato . E insiste: La cultura del Libano nei fatti è una multi-cultura, un privilegio in queste terre mediorientali. Mai più, perciò, avremo una guerra confessionale: la sola soluzione è quella di rimetterci in piedi, grazie ad un sistema educativo rinnovato e laico. Libanesi, musulmani e cristiani Non esistono molti siti al mondo come Biblo, Jbail in arabo, sulla costa mediterranea libanese, quaranta chilometri al nord della capitale Beirut, sulla strada costiera verso Tripoli: i millenni in un fazzoletto di terra proteso verso il mare, dal 6000 prima di Cristo in poi, con metalli e ceramiche e poi il tempio di Baalat Gebal, costruito su una precedente grotta sacra, i fenici e le loro navi, gli amoriti e gli egizi in lotta tra loro, e poi gli hyksos asiatici, greci e assiri e persiani, romani e ottomani, crociati e saladini… Il Libano è ancora culla e vivaio di convivenza e non può non esserlo. Un esempio? È in uno dei palazzi delle organizzazioni politiche e imprenditoriali di Hariri, la cui facciata è ricoperta da un’enorme foto del leader scomparso, che incontro Mohammed Sammak (musulmano sunnita) e L’Emir Harés Chehab (cristiano maronita), segretari generali del Comitato nazionale islamo-cristiano per il dialogo. La loro azione non si limita ad esprimere pareri su diverse questioni, ma si estende a promuovere iniziative che favoriscano la reciproca intesa. Mi dice Sammak: Ogni volta che in questo paese si manifesta un problema politico, ecco che subito i media e l’opinione pubblica gli danno un connotato religioso. E ciò è un fatto molto negativo. In realtà la guerra civile libanese è stata provocata da altri, non certo dai libanesi, che poi tuttavia hanno avuto ampiamente la loro parte nel conflitto. Ora si è aperto un nuovo conflitto politico, ma con la novità che musulmani e cristiani siamo uniti per una politica unitaria in favore del nostro paese. E rincara la dose: Posso affermare – e qualche decennio fa pochi musulmani lo avrebbero detto – che il Libano senza cristiani non sarebbe più il Libano: noi musulmani abbiamo bisogno dei cristiani. C’è una definizione – casa nazionale – che nel 1983 era stata già usata dai musulmani libanesi (sciiti, sunniti e drusi), ma per identificare solo la comunità di religione islamica, mentre oggi viene di nuovo usata, ma includendo anche i cristiani di tutte le denominazioni. È un indiscutibile passo in avanti. L’Emir Harés Chehab, il cristiano, aggiunge da parte sua: Il sangue di Hariri è risultato il cemento per l’edificazione del nuovo Libano. Tutti ne hanno parlato, anche nelle messe cristiane, sebbene Hariri fosse musulmano. Mi viene da ricordare come l’Islam fosse entrato in Libano secondo la tradizione a Tiro: il Profeta era stato accolto proprio dai cristiani, coi quali aveva condotto una vita comune. La nostra, evidentemente, è un’identità complessa e non semplice, che veicola valori comuni, libertà e democrazia, grazie alla coabitazione islamo-cristiana. Riprende Sammak: Noi musulmani abbiamo accettato che il presidente fosse sempre cristiano, mentre il fondamentalismo negava che i musulmani potessero averlo. Anche i cristiani hanno accettato di rivedere il loro sistema politico. Perciò entrambi abbiamo rinunciato a qualcosa. La nostra democrazia certamente non è ideale, ma esiste e funziona, seppur al rallentatore. Noi possiamo essere modello per tutte le forme di governo della regione: si può convivere, i cristiani possono continuare a vivere in una regione dove l’Islam è in maggioranza. È un esempio per paesi come l’Egitto dove le cose vanno male. Ed è importante nel processo di rimodulazione del Medio Oriente. Che la convivenza sia possibile lo dicono i testimoni che, prima della guerra civile, ne avevano fatto l’esperienza diretta. Come mons. Salim Ghazal, vescovo greco-cattolico, che mi racconta del dialogo coraggioso portato avanti già ai tempi della guerra civile, allorché, solo prete cristiano, osò restare nella sua città di Sidone, protetto dagli amici musulmani… In prima linea c’era lo sciita Muhammad el-Amine, poeta e sceicco, che non esita ancor oggi, in un contesto difficile, a proclamarsi stretto amico dei cristiani. Anche la Siria sta cambiando Eccomi di nuovo sulla mia Dodge e i suoi spifferi, per tornare a Damasco. Il cuore è pieno di immagini, di mare e di monti, di bandiere e di cedri, di pietre antiche e di pietre appena sbozzate. Il cuore è pieno del calore e del sorriso della gente libanese così unica e così essenziale nella regione. Un paese che, da distrutto che era, è riuscito a ritrovare una speranza. Un popolo emotivo, che in una notte canonizza un uomo d’affari, che riempie e svuota la piazza nell’attimo dello scoppio di una bomba, ma che sa pure riflettere sulle proprie colpe e sul proprio avvenire. Anche spietatamente. Una comunità che ritrova, dopo una delle più feroci guerre civili del secolo, il coraggio della riconciliazione non solo nazionale, ma anche locale e personale. Fedeli musulmani e fedeli cristiani che riscoprono la loro comune appartenenza alla nazione libanese, prima ancora che alla nazione pan-araba o a quella pan-cristiana. Scriveva il papa del dialogo a proposito della terra dei cedri, al termine del sinodo del 1996: Il Libano, prima di essere un paese, è un messaggio. Non è impossibile che la nazione lo mostri di nuovo, perché anche il vicino siriano sta cambiando la propria forma di governo e di coabitazione civile.