Il caso Battisti: tra diritto e diritti

Cesare Battisti

«Torno a scrivere…», sembra abbia detto il romanziere noir Cesare Battisti subito dopo la scarcerazione stabilita dal Tribunale Supremo brasiliano il 9 giugno scorso. E nelle scorse settimane i network hanno rilanciato le immagini dell’appartamento presso il quartiere ebraico di Higienopolis, metropoli di S. Paolo, in cui il capo riconosciuto dei PAC (Proletari armati per il comunismo), gruppo terrorista degli anni di piombo in Italia, sta risiedendo nel corso delle prime settimane da uomo libero, dopo aver ottenuto alcuni giorni fa lo speciale visto di residenza.

Immagini, parole e pensieri all’insegna della quotidianità e della normalità sembrano reclamare un diritto privato di vivere la propria esistenza potendosi gestire senza più capi d’imputazione pendenti sulla testa. Quelle stesse parole però stridono non poco con le dichiarazioni di sgomento, di profondo rammarico dei parenti delle vittime, le cui storie ci riportano a quanto accadde in Italia tra la fine degli anni ’60 e il decennio successivo, ad una stagione in cui si sparava per affermare un’ideologia, una visione del mondo estremamente manichea in cui le dicotomie padroni-operai, benessere-indigenza, servi dello stato-eroi della rivoluzione produssero una scia di sangue che nulla ebbe a che vedere con svolte politiche e sociali connesse al sogno di un mondo diverso. Al di là dell’indignazione nei commenti a caldo, del senso di fallimento che emerge tra le personalità governative che in questi mesi si sono spese per ottenere l’estradizione di Battisti e cercare di giungere ad un giusto processo in suolo italico per fatti già accertati, per responsabilità già verificate, vale la pena di analizzare brevemente la vicenda, mettendo in luce almeno tre piani di lettura e riflessione che possano aiutare a comprendere cosa si muove dietro un caso che tre stati democratici: Italia, Francia e Brasile, si “palleggiano” da anni.

 

 

Il versante politico e giuridico

 

Si può rimanere sorpresi di fronte a quanto accaduto nelle ultime settimane? Al netto di una richiesta chiara da parte dell’Italia, con Napolitano che per mesi ha rappresentato la voce più autorevole di un fronte politico compatto (anche se non sempre influente e lungimirante) nel domandare la consegna di Battisti, la giustizia brasiliana non ha voluto smentire il proprio presidente uscente, quel Lula che al limite del proprio mandato si è dichiarato contrario all’estradizione, mettendo indirettamente in discussione l’ordinamento italiano, considerato inadeguato nell’assicurare l’incolumità giuridica e personale dell’imputato.

Una valutazione così dura inquieta solo quanti non rammentano le tappe precedenti della vicenda. Per anni la Francia è stata meta di rifugio per terroristi, in parte tutelati da una discutibile interpretazione della “dottrina Mitterand” sul diritto d’asilo (fine del 1982), nella quale si esprimeva la volontà di prendere in considerazione l’estradizione di cittadini di Stati democratici macchiatisi di gravi crimini; ci si riservava, a proposito degli Stati richiedenti, di valutare che il loro sistema giudiziario fosse compatibile con i valori di libertà propugnati dallo Stato francese. Battisti giunse in Francia nel 1989 e venne arrestato più volte a seguito dei fatti accaduti anni prima, senza che l’Italia si interessasse troppo alla definizione della sua situazione. Si arrivò fino al 2004. Italia e Francia avevano già trovato un accordo per mettere ordine in merito alla gestione di una dozzina di latitanti della stagione terroristica (tra loro il membro dei PAC), sui quali pendevano condanne pesanti e per i quali non era possibile applicare il diritto d’asilo. Il governo francese, tuttavia, non mostrò convinzione nel voler consegnare Battisti, nonostante il pronunciamento circostanziato della giustizia transalpina avesse dato ragione all’Italia (in primo grado ed in appello) e, in seconda lettura, fosse arrivata la conferma da parte della corte UE, alla quale si erano rivolti i difensori di Battisti. In quel clima torbido e scivoloso operarono, sembra ormai sufficientemente accertato, i servizi segreti francesi, abili nel procurare all’estremista documenti e una destinazione (il Brasile), che liberasse la Francia dalla scomoda situazione.

A quel punto il “caso Battisti” diventa un affare italo-brasiliano, con la giustizia che fa il suo corso e la conferma della bontà della richiesta italiana di estradizione, impugnata e poi negata dal Presidente Lula, con conferma recente della nuova presidente Rousseff. È un caso portato al limite, sotto i riflettori, ma in definitiva diviene una questione simile a molte altre. Come si possono, infatti, dimenticare le decine e decine di terroristi di ogni colore e le responsabilità di coloro che li hanno messi in grado di usufruire della classica “seconda occasione”, della possibilità di rifarsi una vita presso le località più disparate, spesso senza dover giustificare azioni del passato e senza fornire alcun tipo di contributo all’accertamento della verità di diversi tra i misteri più intricati, dolorosi ed irrisolti della storia del nostro Paese? Certamente, la possibilità di ricominciare una nuova fase della vita, dopo l’accertamento della verità e dopo avere scontato le giuste pene, deve essere offerta a tutti; ma è una diminuzione di legalità e di democrazia non arrivare all’accertamento della verità; è una diminuzione di sovranità non avere a disposizione una legislazione internazionale che consenta di aiutare i Paesi a concordare posizioni simmetriche per dirimere controversie tanto spinose e scomode, perché legate ad eventi aperti ed al centro del dibattito politico e in piena valutazione storica. Detto questo, la situazione di Battisti è ulteriormente gravata da ricostruzioni che inchiodano un imputato reticente, il quale nega le proprie responsabilità senza però mettersi a confronto con una giustizia (ben sette tribunali italiani) che lo ha ritenuto, prove alla mano, colpevole dei reati di omicidio, rapina, costituzione di banda armata e detenzione illegale di armi: non esattamente reati minori.

 

 

Il personaggio Battisti e la sottocultura rivoluzionaria

 

La protezione culturale e la rete di connivenze che ha dato riparo a Battisti in terra di Francia reclama a gran voce anche la qualità e l’onestà della classe intellettuale di diversi Paesi. Spiace dover riconoscere una lettura superficiale, quando non assolutamente errata, che spesso si è voluta dare del periodo terrorista in Italia, con un colpevole stravolgimento dei fatti al fine di considerare Battisti un perseguitato, una vittima del clima avvelenato e carico di odio di un Paese, l’Italia, non pacificato, violentemente repressivo ed incapace di liberarsi da fenomeni di illegalità diffusa. Si fanno i nomi di Vargas, Henri-Lévy, Pennac, Delanoë (che da sindaco di Parigi ha conferito la cittadinanza onoraria al membro dei PAC), non per additarli a cattivi maestri, ma solo per avere alcuni riferimenti di luoghi e di persone rispetto alle quali la classe intellettuale nostrana è risultata incapace di una risposta nel merito.

Si rafforza la sensazione che spesso si faccia fatica ad esprimere posizioni chiare a proposito degli anni di piombo, che ancora si vogliano difendere ricostruzioni partigiane attraverso le quali si è riusciti a cascare in piedi, a lasciare in chiaroscuro le reti di connivenze che consentirono il perpetuarsi di una sottile guerra ideologica e politica dai costi ancora pesanti da sopportare, perché sovente viene impedita una ricostruzione condivisa dei fatti. Non farebbe parte del bene comune anche una disponibilità a descrivere con una certa oggettività i tornanti della propria storia? Potrebbe pacificare coscienze e suscitare nuovi entusiasmi civici il riconoscere che, al di là del “crollo delle ideologie” (crollate quanto a sistemi politici e a partiti, ma, evidentemente, ancora presenti con le loro radici nel pensiero di molti), rimane un presente da scrivere insieme; la riconciliazione non sarà data da una concessione da accordare alla “parte avversa”, ma da una valutazione profonda, coraggiosa e libera di quegli anni. La sconfitta politica e giudiziaria dell’Italia, purtroppo, sembra confermare che il Paese non si è liberato da una certa “balcanizzazione” culturale ed ideologica di cui aree e schieramenti diversi sono ancora vittime. E i segreti di Stato, l’intangibilità di alcuni archivi non fanno che alimentare voci e dietrologie.

 

 

La stagione armata avara di eroi

 

Antonio Santoro, Pierluigi Torregiani, Lino Sabbadin, Andrea Campagna sono i nomi delle vittime che vengono sistematicamente associate a Battisti, per alcune delle quali è chiamato in causa in qualità di esecutore diretto del delitto, per altre in veste di mandante. Colui che è sempre stato descritto come un delinquente comune, politicizzatosi in carcere e divenuto terrorista quasi per vezzo della temperie culturale dell’epoca, conserva il suo aplomb da innocente e mai ha fatto segno di pentimento, tanto da dichiarare all’atto della scarcerazione che auspicherebbe si possa voltare pagina, senza lasciare spazio a vendette tardive. Anche a non volersi risentire, la pretesa d’impunità “a prescindere” che Battisti mostra con le sue affermazioni lascia un certo amaro in bocca, attesta lo spessore umano piuttosto limitato di alcuni tra i protagonisti della stagione armata. La violenza ripetuta, una mente “scavata” dalla tara di voler trasformare l’interlocutore in qualcosa di diverso da una persona, un tu davanti a sé (per odio di classe, per fini ideologici, o semplicemente a causa di circostanze avverse), ha incrinato la capacità di lasciare spazio ai sentimenti più naturali, insiti nella volontà di costruire il tessuto sociale, dove lo stare accanto agli altri, accettandone le diversità, non può essere eludibile.

I parenti delle vittime, in molti casi, sono accomunati non solo dal dolore, dal senso di giustizia che li spinge a chiedere passi concreti verso la verità, ma anche da una lucidità che probabilmente deriva dalla sofferenza. Sabina Rossa, figlia dell’operaio Guido (ucciso dalle BR) e oggi parlamentare, intervistata nei giorni della decisione brasiliana ha detto:

«Sì, sono sdegnata due volte. Ma non m’indigno solo per la decisione del Brasile, ma anche per l’atteggiamento di Battisti: non ha mai avuto una parola per le vittime. E, soprattutto, non ammette le sue responsabilità: ed è la cosa più odiosa. I parenti delle vittime vogliono giustizia e verità, non inseguono la vendetta»[1].

 

La stagione del terrorismo, che va compresa oggi per quello che è stata e contestualizzata nel periodo storico che l’ha prodotta, continua a lasciare strascichi dolorosi. Non sono mancati atti di clemenza, si sta arrivando ad accettare il bene primario del reinserimento sociale e del recupero di coloro che hanno sconfessato gli esiti violenti della rivoluzione “armata”, ma esistono diritti di quotidianità per tutti. E se per i dissociati si possono chiamare desiderio di perdono e voglia di andare oltre, per le famiglie sono sete di verità e volontà di giustizia, sentimenti primari, intimamente connessi alla persona che cerca risposte e reclama dallo Stato nulla più di quanto gli spetti.

 

 



[1] Da un’intervista a Sabina Rossa ne «Il Mattino» del 10 giugno 2011.

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