Il carcere è un fallimento, urge una riforma

La cultura repressiva come unica risposta al male sociale è una sconfitta per tutti. Urge riformare il sistema carcerario. Dibattito aperto nel corso del convegno promosso da Città Nuova e Melagrana Napoli “Giustizia dentro e fuori le mura. Il carcere e la comunità”, svoltosi lo scorso 18 maggio nella città partenopea. Sul canale YouTube di Città Nuova la registrazione.
Convegno “Giustizia dentro e fuori le mura. Il carcere e la comunità”. Napoli, 18 maggio 2024

I numeri sono impietosi e parlano da sé: in Italia, stando ai dati del Ministero della Giustizia, aggiornati al 30 aprile scorso, sono presenti 61.297 detenuti a fronte di una capienza regolamentare che prevede 51.167 posti disponibili. Maglia nera alla Lombardia con +2.755, seguita da Puglia con +1.486, Lazio (+1.483), Campania (+1.362). Regioni “virtuose” la Sardegna che ha 458 posti liberi, la Valle D’Aosta con -39, il Trentino-Alto Adige con -21.

Ma il sovraffollamento, sebbene sia il problema che più facilmente balza agli onori della cronaca, non è l’unico del complesso mondo della giustizia. Se ne è parlato al convegno svoltosi di recente a Napoli dal titolo “Giustizia dentro e fuori le mura. Il carcere e la comunità”, promosso dalla rivista Città Nuova e Melagrana Napoli che è possibile rivedere sul canale YouTube di Città Nuova. Una mattinata che ha visto un’ampia partecipazione di quanti sono coinvolti a vario titolo nell’ambito delle carceri, con interventi delle diverse figure, istituzionali e non, che hanno dato voce a quella che si continua a chiamare un’emergenza, ma che di fatto è oramai da anni diventato un problema strutturale e grave.

Non possiamo restare indifferenti ai numeri dei suicidi, né alle condizioni di salute fisica e mentali dei reclusi, né al loro essere tagliati dal resto della comunità cittadina, lontani e privati degli affetti familiari. Non possiamo tacere di fronte ad una giustizia che tale non è in tanti, troppi casi. «Si dice sempre che sono delinquenti e meritano di stare in carcere. Ma anche questa idea viene smentita dal fatto che non tutti i detenuti sono colpevoli del reato a loro ascritto. Così si arriva a dover pagare un risarcimento, spesso di notevoli proporzioni, che va a pesare sulla comunità intera», evidenzia Samuele Ciambriello, garante regionale della Campania per le persone private della libertà. «Ma anche qualora siano colpevoli, rimangono pur sempre degli esseri umani», ricorda a tutti il garante. E fra loro ci sono anche molti anziani, malati di mente, tossicodipendenti che dovrebbero stare altrove.

Che il sistema carcerario attuale sia una sconfitta lo testimonia il fatto che arriva al 70% dei detenuti la percentuale di chi torna in carcere dopo aver scontato una pena, mentre la recidiva si riduce di gran lunga per chi gode di una pena alternativa.

L’invito del garante è quello di puntare alla speranza, paragonandola a una madre che ha due figli: indignazione e coraggio.

«Non ci preoccupiamo del fatto che le persone che entrano in carcere escano meglio di come sono entrate», commenta Sergio Pezza, presidente della sezione penale del Tribunale di Benevento che ricorda come l’Italia nel 2009 sia anche stata sanzionata dalla Corte europea per i diritti dell’uomo per non aver rispettato i diritti dei detenuti. Corte europea che incoraggia l’Italia ad agire per ridurre il numero dei detenuti prevedendo, in particolare, l’applicazione di misure alternative al carcere. «Allorquando ci sono solo tre metri quadri di spazio in una cella – sottolinea Pezza –, c’è uno spazio inadeguato alla dignità umana. Bisognerebbe inoltre considerare in generale se una condanna è non commisurata al reato commesso, unita a condizioni igieniche non buone, a poche ore d’aria e via discorrendo». Non si dovrebbe parlare di pena al singolare, ma di pene al plurale, cioè di un ampio ventaglio di soluzioni che ridiano dignità e prospettive di una vita diversa a chi ha sbagliato. E, ancor prima, tutta la società e le istituzioni dovrebbero impegnarsi in una cultura della prevenzione.

«Il carcere, così come è strutturato attualmente, è un’istituzione contro la persona», tuona don Franco Esposito, responsabile della pastorale carceraria della diocesi di Napoli. Situazioni e trattamenti talora disumani, infatti, non risultano una soluzione, ma diventano essi stessi un problema nel problema. Che invece potrebbe essere risolto diversamente. Anche solo da un punto di vista economico. Basti pensare che un carcerato costa allo Stato 180 euro al giorno, mentre le case di accoglienza gestite volontariamente, come quella della diocesi di Napoli, non ricevono alcun aiuto economico, ma arrivano molto meglio a favorire il reinserimento degli ex detenuti dando loro una vicinanza sociale ed un futuro lavorativo. «Se il carcere ci deve essere, per impedire che si producano altri danni alla comunità, è pur vero che dopo il carcere bisogna prevedere altro», chiede don Franco che parla dei volontari come persone che, diversamente dalle altre, pensate “per” il detenuto, sono “con” il detenuto.

La testimonianza di un agente di Polizia penitenziaria, Enrico Bellotta, pone l’attenzione su un altro aspetto che non di rado va incontro a criticità, anche se, sottolinea l’agente, occorre tener presente che sono casi singoli. Torna anche qui, come per altre figure professionali, il grave problema, tra gli altri, della mancanza di personale che mette a dura prova tutto il sistema.

Confermano quanto raccontato fin qui le testimonianze di volontarie e volontari impegnati nelle diverse carceri della Campania e in Abruzzo, gli interventi dal pubblico molto partecipe e interattivo, il racconto del progetto che Città Nuova porta avanti con la sua rivista e il libro di Fernando Muraca “Liberi di cadere, liberi di volare”. Conferma l’importanza di quanto affermato la toccante esperienza di Marco Migliaccio, che ha sperimentato sulla propria pelle le criticità della detenzione e, al contempo, l’importanza di una prossimità che lo ha portato al pieno reinserimento sociale.

Un convegno, dunque, in cui non è mancata la denuncia forte delle tante zone d’ombra e che ha raccontato l’indignazione e il coraggio di chi, sentendosi interpellato, si attiva giorno dopo giorno, da anni, per fare la sua parte.

Non è stato un evento spot, si commentava, ma una tappa di un lungo percorso che ha una sua storia e che andrà avanti.

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