Il caporalato sarà punito, ma resta il nodo del prezzo giusto

Approvata la nuova legge che reprime duramente lo sfruttamento del lavoro agricolo. Ancora da definire il ruolo della grande distribuzione organizzata e l’obbligatorietà della trasparenza sull’origine dei prodotti che arrivano in tavola
caporalato

La piaga dello sfruttamento del lavoro agricolo non riguarda solo i campi del Meridione, con i veri e propri ghetti per i migranti allestti in varie regioni. Se n’è accorto anche Sting, il famoso cantante che, in questi giorni, si è dichiarato ed è stato riconosciuto estraneo ai fatti emersi dall’inchiesta della magistratura sul comportamento di un’azienda che ha preso in affitto appezzamenti di vigneti di proprietà della star inglese a Figline Val D’Arno in Toscana.

 

Anche in Piemonte, nel 2015, Slow Food si è resa protagonista di una denuncia del trattamento iniquo riservato ad alcuni braccianti addetti alla raccolta dell’uva. Secondo i dati resi noti da Federdistribuzione in un’audizione al Senato di aprile 2016, per almeno 100 mila lavoratori si può parlare di «grave assoggettamento dovuto a condizioni abitative e ambientali considerate para schiavistiche (lavoratori senza accesso ai servizi igienici o all'acqua corrente ecc.) presenti in 18 regioni e 99 province».

 

Con sole 25 astensioni (da Lega e Forza Italia) e nessun voto contrario, la Camera ha approvato il 19 marzo una normativa che prende di petto il fenomeno della filiera sporca che si consuma con il caporalato, introducendo pene più severe, chiamando in causa la responsabilità delle imprese e prevedendo anche indennizzi e la confisca dei beni oltre a forme di accoglienza per i braccianti stagionali.

 

Se appare rilevante la previsione della confisca dei beni, come avviene con le organizzazioni criminali mafiose, per i datori di lavoro che fanno uso del caporalato, decisiva appare la svolta introdotta nell’iter della legge in Senato, dove è stata eliminata la violenza come elemento necessario per configurare il reato di caporalato. La rete del lavoro di qualità e la prevenzione dei comportamenti criminosi dovrebbe arrivare dalla previsione di un piano operativo che dovrà essere presentato da tutti i ministeri coinvolti (Lavoro, Politiche agricole e Interno) coinvolgendo Regioni, amministrazioni locali e il mondo del terzo settore. Una task force che dovrebbe eliminare una piaga inconcepibile in un Paese civile che ora ha deciso di estendere la copertura del Fondo antitratta alle troppe vittime del reato di caporalato.

 

Un primo passo – salutato dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, come un risultato storico nella difesa dei più deboli – riconosce che «per sconfiggere il caporalato c’è ancora della strada da fare». Anche la campagna “Filiera sporca” riconosce l’importanza di essere andati oltre la figura del caporale come unico bersaglio dell’azione penale, che ora può estendersi anche agli imprenditori che ne traggono diretto vantaggio. Un punto di partenza, quindi, e non di arrivo, perché occorre agire ancora «sulla Grande Distribuzione Organizzata e sugli altri punti chiave della catena, che contribuiscono a determinare i prezzi e le derive amorali del mercato del lavoro».

 

Per adottare il criterio del “voto col portafoglio” è necessario adottare una “etichetta narrante” che sia in grado di «raccontare l’intera vita del prodotto, dal campo allo scaffale». Una prospettiva che presuppone un potere dei consumatori di determinare le condizione della produzione agricola basata su valori condivisi a partire dalla «centralità della dignità delle persone». Solo in tal senso, secondo la campagna di pressione promossa da associazioni ambientaliste e antimafia (Terra! E daSud), sarà possibile riempire di senso «il concetto di made in Italy, prima che rimanga soltanto un guscio vuoto».

 

Una visione che contrasta con alcune analisi che vedono, ad esempio, crescere, in forza della crisi economica, il consumo diffuso di frutta e verdura a basso prezzo, grazie alla diffusione nelle grandi e piccole città di un gran numero di negozi aperti 24 ore al giorno e collegati, tramite il denaro in prestito, come è emerso da recenti inchieste, a reti distributive inquinate da persistenti presenze mafiose. Ciò determina un disagio economico crescente, che rischia di alimentarne uno peggiore, mettendo in crisi il modello del consumo virtuoso incapace, da solo, di cambiare il mercato.

 

Resta aperto il discorso sulla possibile obbligatorietà o meno della trasparenza con un marchio tipo “sfruttazero” che anche le industrie e le grandi catene commerciali, tranne i casi conosciuti come la rete delle coop, stentano ad adottare volontariamente.

 

 Insomma progressivamente la legge sta intervenendo nella catena iniziale della coltivazione e raccolta dei prodotti agricoli, ma resta decisiva la determinazione del prezzo finale di ciò che arriva nelle nostre tavole.

Ad esempio, come emerge da tanti rapporti del settore, un chilo di arance costa tra 1 e 1,5 euro sul banco dell’ortofrutta ma al produttore possono andare dai 13 ai 15 centesimi, quando va bene. Quanti centesimi di euro potranno andare a chi le raccoglie? E chi ora prende la fetta di torta maggiore, come potrà decidere di ridurre la sua parte se non tutti rispettano una regola comune di equità?    

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