Il capolavoro di Appelfeld

È morto a 85 anni il grande scrittore israeliano, che con la sua vita ha attraversato il Novecento
Aharon Appelfeld

Il capolavoro di Aharon Appelfeld?  La sua vita, certamente. Appelfeld è stato un grande scrittore, ha scritto molto e bene, alcuni suoi libri sono davvero eccezionali… ma il suo capolavoro rimane lui stesso, la sua vita. Con quel berretto sempre un poco di sbieco, con quel suo sorriso fanciullesco e intelligente, amava raccontare, raccontare la vita, la sua e quella della sua gente. E da raccontare aveva davvero tanto.

La sua infanzia serena, spensierata. Il villaggio, il profumo delle fragole. Il papà che ferma una giovane donna che torna dalla campagna con un cesto di vimini colmo di fragole, compra l’intero cesto e lo dà al bambino Aharon che corre dalla mamma la quale le lava e le addolcisce con zucchero e panna. La madre: una donna eccezionale, colta e dolce, grande conoscitrice della letteratura tedesca.

Ma in quegli anni il mondo impazzisce sulla spinta malvagia di Hitler. L’incanto della vita di fanciullo s’interrompe bruscamente. È un giorno dell’estate ‘41 quando un branco di gentaglia del villaggio si dirige verso la sua abitazione per saccheggiare e incendiare la «casa degli ebrei» prima dell’arrivo dei nazisti. Sua madre accorgendosi della situazione gli grida: «scappa e non voltarti indietro, nessuno deve sapere che sei ebreo». Poi lei viene violentata e uccisa.

Aharon ha nove anni. Scappa, vive nei boschi con il padre. Ma vengono catturati e finiscono in un campo di concentramento. Lì vengono uccisi suo padre e i nonni. Lui riesce ad evadere con alcuni altri, e si dà nuovamente alla macchia, unendosi a bande di partigiani e delinquenti nelle foreste tra Ucraina e Romania.

Per tre anni vive con «bande di ladri di cavalli, contrabbandieri, prostitute, streghe e falsari». Nel suo vagabondaggio trova diverse persone che lo aiutano. «Non ho visto Dio, ma ho visto i giusti», dirà poi. Anche alcuni animali si prendono cura di lui. Alla fine s’imbatte in alcune unità dell’Armata Rossa che lo prendono come aiuto cuoco, finché la guerra non finisce.

Aharon è un ragazzino quando arriva nei campi profughi, dove la desolazione si interseca alla voglia di vivere e di dimenticare in fretta: ricorda gente disperata che non aveva neppure più la forza di pregare, e altri che ballavano, bevevano e facevano l’amore alla luce del sole. Finisce a Napoli. E dopo qualche mese riesce a imbarcarsi per la Terra d’Israele.

Ha sedici anni quando giunge a Tel Aviv. Lì una nuova vita: campi di accoglienza, lavoro manuale nei kibbutz. Fatica con la lingua: lui l’ebraico non lo conosce, e deve sudare per impararlo. Dirà: «La lingua ebraica non ha solo aperto il mio cuore che era chiuso, mi ha anche ricondotto vicino ai miei avi». Vive momenti di grande eccitazione: si lavora a costruire un nuovo stato, lo stato d’Israele.

Inizia a leggere la Bibbia, e si avvicina alle radici del suo popolo. La sua famiglia, sebbene ebrea, non era religiosa e lui non aveva mai imparato a pregare. Ma era attratto dal senso del mistero e della fede. Paradossalmente questa attrazione gli veniva proprio dal cristianesimo. Racconta: «Ricordo che da piccolo in casa mia lavoravano due cameriere ucraine, molto pie. Ricordo la grande impressione che mi fece una di esse cui era caduta per terra una icona. Subito s’inginocchiò e iniziò a pregare. Credo sia stata la prima espressione religiosa concreta che ho incontrato. Mi portavano a passeggio e spesso entravamo in qualche chiesa. Io ammiravo questi grandi spazi vuoti e decorati, ero impressionato dal sangue che fuoriusciva dalla figura di Gesù. Non ho mai dimenticato. È un grande paradosso per un ebreo come me aver scoperto la dimensione religiosa attraverso il cristianesimo». Appelfeld divenne poi scrittore, un grande. E conviene leggere i suoi libri. Anche se rimango dell’idea che il capolavoro sia stata la sua vita.

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